smancerie

Ode alla timidezza, ovvero al regno del possibile

Sono cresciuta con un cugino quasi coetaneo talmente faccia di bronzo che io al confronto mi reputavo timida, e una sorella talmente timida che dimenticavo la mia presunta timidezza e cercavo maldestramente di aiutarla, senza speranze.
Per essere di qualche aiuto a una persona timida —e per la verità a qualunque persona— c’è bisogno di una qualità che io possiedo solo in dosi omeopatiche, anche se va un poco meglio dopo la maternità: l’empatia.
“Quando ti prendono in giro tu non reagire, vedrai che smettono” dicevo a mia sorella negli anni spensierati delle elementari. E lei ci provava con tutta sé stessa, ma poi paonazza esplodeva in un pianto inconsolabile dopo minuti e minuti di querula derisione da parte del piccolo mostro sadico di turno. E io sinceramente non capivo. Prendevano in giro anche a me, ma io ridevo sempre, senza sforzo. Ho la risata facile, e pazienza se parte prendendo spunto da me. Anzi, forse fa pure più ridere. Io la sua ritrosia semplicemente non la capivo. E fatico a capirla anche ora che siamo grandi, e la sua timidezza è molto più gestita e la mia empatia è un minimo (ma un minimo!) migliorata.

A mio cugino e mia sorella volevo e voglio bene, a entrambi. Proprio perché così diversi, anche se me ne rendo conto solo ora. Lui rappresentava ai miei occhi il regno del possibile. Sembrava sempre che le leggi della fisica e le convenzioni sociali fossero in dubbio perenne, o messe lì apposta per essere sfidate. Il salto dal ramo più alto o lo scherzo più beffardo al vicino di casa erano un richiamo irresistibile.
“E se ci scoprono?” chiedevo quando mi proponeva di seguirlo, e io ero Ulisse e lui la sirena in questi casi. “Dirai che ho fatto tutto da solo, tanto con me ci hanno rinunciato” rispondeva sbrigativo, perché l’unica cosa che contava era passare all’azione. Tutte le volte che prendo una decisione a lungo ponderata senza mai tornare sui miei passi, tutte le volte che dico un sì o no convinti e a cuor leggero sono anche una eredità dell’esposizione alla sua caparbietà infantile, a quella voglia inesauribile di andarsi a prendere quel che si desidera.
“Mamma io da grande voglio avere cento Ferrari!” disse da bambino a mia zia.
“Cento?! Ma te ne basta una. Cosa ci fai con le altre 99?”
“Per le mie donne!”
Da bambina socialista non capivo (anche lui era un bambino socialista in teoria, e in questo è sempre stato più sveglio di me), ma le sue risposte caustiche, il suo esempio di proattività verso il mondo sono state comunque una scuola preziosa, anche se il suo lascito più grande è ovviamente stato l’affetto che ci siamo scambiati nella nostra grande coccolosa famiglia. Amor vincit omnia.

Mia sorella rappresentava invece il regno delle paure possibili. Paure che quasi mai io provavo sulla mia pelle, ma che capivo essere parte dell’esistente. Nell’educazione balcanica un invito ricorrente a bambini e bambine è: non aver paura. (Che poi io dico “balcanica” intendendo “iugoslava”, ma forse pensando più che altro “dalmata” o magari mi riferisco in particolare alla mia famiglia: non lo so; più passa il tempo e meno cose so.) Ne boji se, non aver paura. Tuffati, ne boji se. Percorri il sentiero buio, ne boji se. Chiedi un’informazione a questo signore che non conosci, ne boji se. Ci ho messo molti anni della mia vita adulta a riscoprire il valore della paura e a ammettere che il mio più che coraggio era rimozione.

Crescere con mia sorella è stato un privilegio da ogni punto di vista. Sono stata una sorella ingombrante per molti aspetti, ma con l’ingenuità con cui credo e temo anche oggi di essere una compagna complicata, un’amica leale ma non sempre ricettiva, una collega che non sgomita mai ma che potrebbe risultare scostante senza avvedersene. Con la sua incredibile abilità nel racconto orale, eredità del nostro amatissimo nonno (sì, il nonno del water rosa), mia sorella descrive scenette dal suo lavoro in un contesto multilingue e multiculturale e io la ascolto affascinata, mi sembra di sedere lì accanto a lei.
“Eravamo in riunione e io sentivo il suo disagio” dice, e per me è come se parlasse di un superpotere fichissimo.
Mia sorella è stata una bambina timida ma non mi pare che lei si definisca una persona timida oggi. È sempre ben voluta, è divertente, è attenta agli altri e punto di riferimento della sua multiforme comunità di expat. Penso che tanti aspetti positivi di lei oggi abbiano le loro radici nelle sue paure di ieri, che lei ha affrontato con molta più compiutezza di me. Anche io ho un po’ beneficiato di riflesso delle sue piccole grandi conquiste osservandola, senza sempre capire subito, ma elaborandole lentamente e spesso inconsciamente. Alla fine anche lei ha rappresentato in modo diverso il regno del possibile. Delle paure che era possibile accogliere, accettare e superare.

Tra le persone migliori incontrate nella vita quelle timide sono sovrarappresentate. Forse le preferisco. O forse semplicemente tante persone timide (o che lo sono state nell’infanzia) sono anche persone in gamba. Il mito contemporaneo del successo a tutti i costi, e per di più così codificato e uguale per tutte e tutti (soldi, fama, riconoscimento sociale), è per me aberrante sul piano ideologico ma è anche noioso perché presuppone di norma anche lo stesso prototipo di protagonista: una persona estroversa, esuberante, un po’ superficiale e “cazzuta”. Essere determinati è una caratteristica, ma forse non è giusto che sia considerata una qualità indispensabile. Mia sorella al ristorante ci mette 20 minuti a ordinare e poi regolarmente si pente della sua scelta. Non ho mai capito come questa tendenza sia legata alla passata timidezza, ma di sicuro il mondo in cui viviamo premia persone molto simili tra loro e accomunate da una certa smania.
Io sono femmina, sono nata in un paese del terzo mondo (quello che il terzo mondo lo ha inventato, per così dire), sono stata apolide, a lungo extracomunitaria, non mi è mai mancato l’essenziale ma sono spesso stata vicina alla soglia della povertà, sono cresciuta in provincia senza spalle coperte. In teoria parto da una serie di svantaggi notevole. In questo contesto, ciò che mi ha mandato avanti nella vita non è stato solo quello che so o che so fare, ma anche un carattere che più per caso che per altro è conforme a quanto richiede il mercato. Io sono una rompiscatole per un sacco di aspetti, e del sistema socioeconomico occidentale contesto quasi tutto. Ma sono una persona estroversa e naturalmente determinata. E questo mi ha dato negli anni un vantaggio di cui non ho merito. Sia chiaro, il privilegio di nascita è altra cosa, e lo combatterò per sempre. Ma tra noi comuni mortali che viviamo di stipendio il proprio naturale temperamento gioca un ruolo notevole e forse sproporzionato.

Un caro amico usa definire le persone che conosce secondo il criterio simpatica / non simpatica. Una volta gli avevo detto che non mi ritrovavo in questo metodo, perché raramente giudico le persone come simpatiche / non simpatiche, ma la mia argomentazione si è arenata lì. La sua compagna aveva invece aggiunto “Sì, anche perché una persona timida raramente viene ritenuta anche simpatica, ma non per questo non può essere di valore”. Naturalmente il mio amico intende genericamente con simpatica / non simpatica una persona che gli piace / non gli piace. Ma quella riflessione di sua moglie (nonché anche lei cara amica) secondo me è molto vera. Il mondo ha mille difetti tra cui quello di valorizzare poco le tranquille qualità delle persone timide o comunque persone che si discostano dallo standard di chi sa prendere la parola e pensare sempre di avere qualcosa da dire (come io in questo post o io in mille altre occasioni). Quando mia sorella alza gli occhi al cielo e sospira “Tu e tuo padre sempre competitivi!” non solo mi fa ridere ma mi fa anche bene, perché mi ricorda che ci sono mille modi per essere felici e stare bene con sé stessi e con gli altri.

Oggi ho detto a una bambina che non è mia figlia ma che fa parte della mia famiglia Mi piaci un sacco! guardandola in faccia mentre gli occhi mi si facevano lucidi. La tenevo in braccio, mi stringeva forte e percepivo che si sentiva al sicuro con me. L’avevo appena portata fuori da un negozio di scarpe dove tre commessi si erano attivati attorno a lei senza che avesse proferito parola, né espresso preferenze, né camminato avanti e indietro come suggerito per testare le calzature, né rimirato allo specchio le nuove creazioni ai piedi. Neanche all’orecchio dell’amorevole papà aveva ceduto e sussurrato se preferisse il paio rosa o quello blu. Così mentre suo papà pagava l’ho portata fuori a prendere aria e a dirle che mi piace perché è vero.

In quello stesso negozio un mese fa sono andata con mia figlia che ha la stessa età. Ha detto “Buongiorno!” tutta garrula ai commessi, provato quattro o cinque scarpe, ha camminato avanti e indietro di specchio in specchio, toccandosi il ditone in punta anche se erano sandali (giocare al negozio di scarpe è per lei un gran divertimento), e poi ha scelto quelle che voleva senza tentennamenti.
“Ma non è che preferisci queste, tesoro?” ha chiesto alla commessa.
“No!” l’ha liquidata lei, come se le avesse proposto di mangiare una cavalletta.
La amo quando fa così, perché è totalmente lei. E naturalmente mi riconosco in questa modalità di fare, e questo c’entra nella connessione che c’è tra noi due. Ma voi dovreste vedere il successo che riscuote mia figlia per quelle che sono normali esternazioni del suo carattere aperto e non certo qualità sovrumane. Mia figlia dice una spiritosaggine in pubblico e la trattano come se avesse l’orecchio assoluto. Certo è notevole, ma non dovrebbe essere un comportamento socialmente osannato rispetto a quanto è svilito il normale silenzio di un bambino o una bambina in un contesto sconosciuto in cui non è a proprio agio.

Quando mio cugino mi prendeva per mano e mi trascinava in situazioni inesplorate o quando lo facevo io con mia sorella non funzionava un granché. Però un pochino, con costanza, volta dopo volta qualche passetto di consapevolezza arrivava, e qualche curiosità veniva colmata. Quello che meno capivo era quando mia sorella voleva fare un’esperienza X a caso, ma non riusciva a farla. Era diverso quando giustamente si rifiutava di fare quello per cui non aveva alcun interesse. Quando le leggevo in faccia la scissione tra la voglia di partecipare e il terrore di esporsi io semplicemente non riuscivo a immedesimarmi.

Io non lo so se mia figlia imparerà a prendere per mano con delicatezza la “mia” altra bambina timida e tosta per renderle un po’ meno ostile un mondo ottuso che non le dà ascolto abbastanza. E non so nemmeno se la mia bambina timida e meravigliosa insegnerà alla mia figlia adorata che allenarsi alla paura è una risorsa per la vita. Non lo so. Tra le mie poche qualità annovero quella di non vivere di aspettative, mai. Ma guardarle giocare assieme è uno spettacolo, e vederle crescere così diverse è un privilegio, come lo è stato trascorrere l’infanzia a cavallo del regno del possibile e del regno delle paure, quelle paure che è possibile accogliere, accettare, superare con le proprie forze e con l’amore incondizionato della famiglia. 

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mostovi, politiké

Venti e trenta: i sogni di una generazione infranti a Genova e la fine della Iugoslavia

Non sono a mio agio con gli anniversari, mi mettono ansia da prestazione. Nei mesi precedenti ci penso e mi aspetto un avvicinamento dolce, a tappe calme e lente, fatto di approfondimenti e articoli arguti, di condivisione, ricordi. Invece poi l’anniversario arriva brutale e mi coglie impreparata e incredula.

Sono passati trenta anni dall’inizio della guerra in Iugoslavia e venti anni dal G8 di Genova, due avvenimenti separati nella testa di quasi tutti, e in realtà anche nella mia, ma che mi hanno segnata lo stesso e che si accavallano talvolta in ricordi dolorosi e pensierosi, e in qualche modo chiedono di uscire e essere elaborati.

Non sono stata a Genova e so perché, a livello ⎯diciamo così⎯ logistico; ero altrove a fare altro e ne ero felice. Ma non mi spiego tutt’ora perché ne sapessi così poco in un periodo della mia vita in cui mi interessavo alla politica molto più di adesso, pur con tutte le ingenuità dei quasi venti anni. Il mio fidanzato dell’epoca, che poi è stato mio compagno di vita per tanto tanto tempo, andò e tornò da Genova in treno, dalla costa adriatica dove abitavamo, facendosi il viaggio di ritorno nel bagno perché ogni altro posto su tutti i vagoni era strapieno: avevano ridotto a un terzo i treni per il rientro dei manifestanti, tanto ribadire i rapporti di forza e controllo, semmai ce ne fosse stato bisogno. Militava nella sezione giovanile di un partito di sinistra, io no ma parlavamo molto di politica come di tante altre cose, non ricordo e non riesco a ricostruire perché di Genova prima di Genova avessimo parlato così poco. Io avevo la maturità, lui era già al primo anno di università ma ci sentivamo spesso e uscivamo nel finesettimana, chissà come quell’appuntamento a cui lui avrebbe partecipato sfuggì alle nostre conversazioni e alla mia curiosità. Leggevo il giornale tutti i giorni, sapevo di Seattle, mi sentivo abbastanza informata, eppure non avevo colto la portata dell’evento. Ero “in target” come potrei dire con il gergo che uso oggi nel mio lavoro, eppure non mi aveva raggiunto il messaggio. C’è poco da stupirsi se il G8 di Genova a molti italiani dica poco ancora oggi. Io almeno ho recuperato dopo, ma loro? 

Non sono a mio agio con gli anniversari, servono principalmente a ricordare quanto sia ancora profondamente ingiusto il mondo in cui viviamo, esattamente come allora. Quell’estate però non ci stavo pensando più di tanto e approfittavo di ogni occasione per non pensare ai dieci anni dall’inizio della “mia” guerra civile. Ero stata invitata a una summer school della Scuola Normale Superiore di Pisa, a Colle Val d’Elsa, e io e il mio futuro marito ci salutammo partendo io spensierata per la Toscana e lui militante e tranquillo per la Liguria, con la sua lunga esperienza di cortei e manifestazioni. A Colle Val d’Elsa incontrai un’amica per la vita, e a breve ci rivedremo dopo la pausa più lunga di sempre (grazie maladetto covid) per festeggiare i nostri venti anni di amicizia. Ricordo che mi consolava e mi tranquillizzava mentre guardavo allucinata e preoccupata le immagini del telegiornale di quei giorni, grondante dell’acqua della piscina dove facevamo la pausa pranzo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio. (Ho sempre fatto il bagno anche dopo mangiato, autorizzata dai miei genitori balcanici: quel mito lì è una roba solo italiana, spero non lo stiate scoprendo ora.)

Provai a chiamare il mio fidanzato più volte, a scrivergli sms che chiedevano solo se stesse bene. Era partito deliberatamente senza cellulare, tanto era con i compagni di partito e non voleva correre il rischio di perderlo, e comunque ricaricarlo era un casino. Con le morbose abitudini telefoniche che abbiamo oggi quella scelta suona abbastanza assurda ma i telefoni di allora effettivamente non navigavano, non filmavano, né facevano foto. Mi arrivò credo un laconico messaggio mentre già rientrava, del tipo “Sto bene ti chiamo presto”. Lo sgridai eccessivamente al suo ritorno, con l’incoscienza dell’età mi ero sì preoccupata ma in fondo sentivo che stava bene e che sarebbe tornato sano e salvo. Persino quando avevo visto il corpo di un mio quasi coetaneo per terra senza vita ero rimasta esterrefatta ma non avevo perso lucidità. Quando finalmente ci siamo sentiti gli chiesi “Ma che casino è stato?” e lui caustico come sempre “Eh, hanno fatto anche un morto”.

Nei giorni successivi recuperai quello che avevo seguito poco e male dal tempo sospeso di Colle Val d’Elsa, e mi ricostruii una mappa stranissima e incompleta. Un amico più grande di quei giorni aveva altre conoscenze a Genova dai centri sociali spagnoli, mi diede un altro tassello che sentii forse lontano o comunque combaciare poco con tutto il resto. I giornali del dopo Carlo diventarono inutili alla comprensione, subito virati alla morbosa ricostruzione e alle frasi feticcio Sei stato tu col tuo sasso e altri latrati grotteschi. Diventò sempre più netta la separazione tra le frammentate testimonianze dirette e il racconto mediatico.
“Siamo rimasti sempre nel corteo, non ci si poteva allontanare nemmeno per pisciare, perché appena entravi nei vicoli rischiavi di prendere un sacco di botte”, è stato il primo racconto dal vivo del fidanzato. Credo sia stata quella strana combinazione di Summer School e caldo estivo, media italiani sistemicamente inadatti e testimonianze dirette così dolorose da suonare irreali a farmi vivere quella esperienza indiretta in modo confuso e lontano dalla mia sensibilità civica, il tutto nella calda estate della maturità e delle scelte per il futuro: quale università, quale facoltà, quale città. E la pietra tombale la misero i fatti matti dell’11 settembre, io ero di nuovo in Toscana, e di Genova si scordarono più o meno tutti quelli che non c’erano stati.

Non sono a mio agio con gli anniversari, si intrecciano gli uni con gli altri e alla fine tutto si appiattisce. Sono passati trenta anni dalla dissoluzione della Iugoslavia, lo stato federale in cui sono nata e cresciuta, dove ho mosso i primi passi e detto le prime parole, in una lingua col trattino che oggi viene chiamata in tanti modi. Se li contassi tutti, parlerei 7-8 lingue. Ho scritto molte parole inutili sulla violenta dissoluzione del mio paese, e ogni volta è stato devastante. Capita a volte che non ci pensi per qualche giorno e sono le volte che poi all’improvviso un dettaglio o un ricordo mi fanno singhiozzare con più disperazione.
Perché piango? Per il dispiacere inconsolabile della Patria perduta, certo, ma una piccola parte di quel dolore sta nella solitudine di viverlo in un paese dove non mi è riconosciuto né è capito, un paese confinante cui quella guerra è stata raccontata malissimo, confondendo i piani, mischiando vittime e carnefici, additando cause del tutto secondarie e rispettando pochissimo il nostro dolore e la verità.
È sorprendente quanto gli italiani sappiano poco e male delle guerre che hanno dilaniato il paese che non esiste più tranne che nel mio cuore. In buona fede nella quasi totalità delle volte, ci mancherebbe, e con meritevoli eccezioni, ma è notevole comunque.

Non sono a mio agio con gli anniversari, raramente i gap di conoscenza vengono recuperati, però qualche bel contributo ogni tanto alleggerisce un poco l’anima.
Ieri ho ascoltato con gli occhi lucidi la storia incredibile di Yutel, la televisione federale i cui giornalisti lottarono strenuamente per la pace e contro la follia, raccontata con garbo e sapienza dalle persone meravigliose che hanno inventato Kiosk, una edicola volante che tutti gli italiani europei dovrebbero ascoltare.
E questo pezzo del Mulino mi ha un po’ sbattuto in faccia alcuni miei stessi pregiudizi, e mi ha fatto fare un po’ più pace con il mio est che è diverso e non per questo inferiore. Grazie all’amica di Twitter che me l’ha segnalato.

Non sono a mio agio con gli anniversari, vorrei al contempo leggere tutto e non leggere niente e aspettare che passi la tempesta.
Sono settimane che parlo con il mio nuovo compagno di Genova e di quanto sta uscendo, in particolare di Limoni, il podcast di Internazionale che la mia tielle sembra apprezzare molto. Lui, che a Genova c’è stato dopo un anno di preparazione come dovrebbe essere sempre e come io non ho fatto, lo trova per ora insufficiente e superficiale. Per chi non c’era, per chi era troppo giovane, for dummies. Che era esattamente il punto dell’editoriale del direttore De Mauro in cui ha presentato il progetto. Probabilmente funziona per quel che deve, e tenta di parlare a chi non c’era o come me ricorda poco e male e poi magari non ha recuperato granché. De Mauro dice nella prima puntata che i primi anni dopo Genova bastava il toponimo e tutti capivano a cosa ci si riferisse. Da qualche anno il potere di quel nome di città ha iniziato a scemare. Quindi bene che Internazionale, la mia rivista del cuore da molti anni di felice abbonata, e che per di più ha avuto da quel momento una svolta verso il suo successo editoriale, abbia costruito una narrazione con intenti anche divulgativi, partendo da una sua giornalista che c’era, anche se un po’ quasi per caso, con i problemi che questo porta a chi c’era venuto da un percorso diverso. E ci sta anche che non parli a tutti, probabilmente nemmeno a me che non c’ero ma avrei potuto e forse dovuto esserci. Perché appunto è un progetto editoriale, con tutti i limiti e difetti di un prodotto, che non è ⎯e nemmeno vuole essere⎯ un’opera d’arte. La mia voglia di recuperare questi venti anni è troppo grande per uno snack spezzafame. E forse dopo anni di podcast mi sono un po’ stufata di certi vezzi del mezzo come “Riprendo il treno” e giù rumori di stazione, ma so bene che è un problema mio.

Come è un problema mio il mio disagio con gli anniversari, che ti fanno tirare fuori tuo malgrado quello che sarebbe comodo lasciare stipato dentro, se solo non facesse così male anche dopo venti, trenta anni.
Ci sono verità che vanno oltre il sentire comune, che non si imporranno mai sulla narrazione mainstream, se non fra molto tempo, quando nessuno di noi sarà più a questo mondo.
Io però sono felice di aver raccolto negli anni qualche lacerto di quelle verità di nicchia e di non essere, almeno non sempre, tra gli ignavi e gli indifferenti. Sento un moto di gratitudine verso le persone che ho conosciuto e che mi hanno raccontato il loro G8. Vale per il mio fidanzato di allora e per il mio compagno di oggi. Per l’amico bolognese che mi ha raccontato la storia dei limoni contro i lacrimogeni, anche tra qualche amara risata, e che mi ha permesso così di capire al volo il titolo del podcast. Sono contenta di aver parlato qualche settimana fa con due amici del Freelancecamp con cui non era mai saltato fuori questo argomento, ne sono stata onorata.

Non sono a mio agio con gli anniversari, ma tanto vanno e vengono anche senza il nostro consenso. Tanto varrebbe approfittarne per accoglierli, parlarne con calma e ragionando assieme. Se solo non facesse così male, anche dopo venti o trenta anni.

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mostovi

Cosa non ho ancora imparato dalla guerra sulla pandemia

Tira vento, forte, e sono inquieta. Non per il vento, non lo so ben spiegare. È per qualcosa che arriva da lontano.

Di Italia ‘90 non ho alcun ricordo. Eppure non ero poi così piccola. Il mio amico e coetaneo Gianluca, la persona che conosco direttamente con la maggiore cultura sportiva dopo mio padre, credo ricordi quei mondiali minuto per minuto. Avevamo 8 anni ma le nostre estati erano diverse. Io ero nel mio altrove, nel mio mondo parallelo. Era l’ultima lunga estate che trascorrevo in Iugoslavia ma non lo sapevo. Quella vita a metà, che seguiva il ritmo del campionato di pallamano e della scuola, incideva sulla mia percezione e costruzione personale della realtà. Così i mondiali in Italia non esistevano perché io giocavo fuori nel quartiere tutto il giorno, e altro non mi interessava. Immagino che mio papà qualche partita di Italia ’90 l’avrà vista, ma non me lo ricordo. Chissà perché invece ho vivissimi ricordi dei match di Monica Seleš e Martina Navratilova. Chissà.
Barcellona ‘92 sono Olimpiadi che ricordo bene, perché la nostra vita a metà era finita, eravamo intrappolati in Italia, o meglio in tutto il resto del mondo che non fosse la Iugoslavia con le frontiere chiuse e le ferite aperte, al galoppo verso l’orrendo prefisso di “ex”. Tutto nella mia vita lo conto tra prima e dopo il 1991, anno in cui è iniziata la guerra, e tra prima e dopo il 1995, anno in cui la guerra non è finita. Anche i ricordi legati allo sport.

*

Ora è buio e freddo fuori, e sono inquieta. Non per il freddo, quello non lo sento mai davvero, non me lo so ben spiegare. È per qualcosa che arriva da lontano.

La mia doppia vita raddoppiava le bizzarre interpretazioni della realtà tipiche dei bambini, e non solo (i primi tempi in Italia mia mamma dava per scontato che Roma dovesse essere in Romagna). Mi chiedevo perché ci fossero Superman e i Puffi in Iugoslavia ma non Fantozzi, che amavo e non capivo come tanti bambini, e non solo.
E poi erano gli anni ‘80, c’era la musica più assurda di sempre. In quelle estati sempre fuori, nella mia piccola città o al mare quando ci spostavamo “in rivijera”, non avevo bene idea di quanto vecchie o nuove fossero le canzoni onnpresenti. Era per me un blob musicale che nessuno mi aiutava a decodificare, parlando i miei poco con me dell’ottima musica che avevano ascoltato negli anni ‘70. Del resto, come potevano pensare che non ci sarebbe stato il tempo per una educazione musicale come si deve? Per quel che ne sapevo io all’epoca, Marina Marina Marina (ti voglio al più presto sposar, 1959) poteva essere coeva de La Lambada, che nel 1989 era appena uscita e che Nina sapeva ballare e ce lo insegnava. (Ammiravo con una punta di invidia la mia amica Nina che avendo un anno meno di me sapeva sempre fare tutto. Le volevo molto bene.) Quel poco che so del rock iugoslavo l’ho scoperto molti anni dopo, facevo già l’università. Scrissi una tesina di semiotica dei linguaggi musicali sui Bijelo Dugme sull’onda dell’entusiasmo di quella tardiva scoperta. Non mi era mai venuto in mente negli anni liceali di chiedere ai miei Ma c’è della musica iugoslava bella? perché tutto quello che aveva a che fare con la sponda opposta dell’Adriatico (vivevamo sulla Riviera delle Palme allora e qualche volta mi mi pareva quasi di vederla, la sponda “originale”) provocava in tutti noi un dolore quasi fisico, e leggermente diverso per ciascuno, come se il dolore avesse un colore. Se tu soffri magenta non puoi davvero capire chi soffre corallo, anche se somigliano. I Bijelo Dugme hanno scritto pezzi giganteschi e fatto dell’ottima musica, prima che il paese che li aveva incubati si dissolvesse, e molto prima che il loro giovanissimo bassista e fondatore diventasse Goran Bregović. Ma nel 1990 non conoscevo i Bijelo Dugme. Avevo 8 anni e ascoltavo Tajči cantare Hajde da ludujemo ove noći, Stanotte andiamo a far follie, un’esplosione rosa shocking e massimo disimpegno.
E poi c’era Massimo. Che non era nulla di che e non avrebbe somigliato a nulla che io avrei poi ascoltato nei decenni a venire, ma che per strani giri del destino è un pezzo importante delle mie dolorose memorie. Scommetto che i giornali di gossip dell’epoca faticavano a ricordarsi di scrivere Massimo con due s (per @gluca: Sì nella SFRJ avevamo anche i giornali di gossip…). Ricordo che mia mamma sosteneva avesse la mamma italiana, questo Massimo. Ricordo di aver ascoltato quella cassetta a Knin, a casa, assieme alle mie adorate fiabe sonore che ancora so a memoria, specie Palčica, Pollicina, che era così lunga da occupare sia il lato A sia il lato B. Potrei sbagliarmi ma credo fosse stata mia zia Goga a comprare quella cassetta, quella Muzika za tebe, musica per te.

*

È ancora buio fuori, dentro è caldo e tranquillo, ma sono comunque inquieta. Non ho paura del buio, ma di qualcosa che arriva da lontano sì.

Non mi spiego bene perché quelle cassette arrivarono con noi in Italia nel nostro ultimo rocambolesco viaggio. Siamo partiti in gran fretta (siamo fuggiti, sarebbe più corretto dire). Ricordo il mio costume intero rosso, usato come canotta. Dei pantaloncini arancioni sopra. Ricordo i ricci di Ines. Ricordo che ci hanno fermato, le tute militari, le mitragliatrici. Devo aver percepito lo stress dei miei genitori, rivivo dei flash come al cinema. Vedo il profilo di mia mamma e oltre, quella soldataglia. Infine quella domanda assurda Perché non indossate le cinture? Col senno di poi avrei dovuto gridare Santiddio sono appena iniziati gli anni ‘90, nessuno porta ancora le cinture! Ci fecero la multa e ripartimmo. Con un borsone di canotte e costumi da bagno. E una scatola di musicassette che chissà se avevo infilato di nascosto nella vecchia Talbot o se avevo frignato per portarla con me e mi avevano assecondato perché c’erano questioni più importanti a cui badare, tipo salvare la pelle. Alla fine l’ho tirata fuori diversi mesi, forse persino anni dopo, la cassetta di Massimo, dovevo essermela scordata lì per lì. Eravamo tornati in Italia (fuggiti) in piena estate, il giorno dopo avevano chiuso le frontiere, come a dire Okay, lasciateci impazzire con comodo e massacrarci a vicenda per qualche anno eh, do not disturb. Siamo andati al mare sulla sponda sbagliata dell’Adriatico quell’anno, come del resto avremmo fatto per molti anni a seguire. Impegnata a nascondere il mio smarrimento sotto la sabbia del litorale abruzzese, mi ero scordata di Massimo e fui sorpresa mesi dopo di riascoltare la mia prima lingua parlare d’amore e altre sciocchezze. In casa si parlava ormai quasi sempre solo in italiano, ufficialmente per aiutare mia mamma alle prese con la sua seconda laurea, in realtà perché anche parlare faceva male. Ascoltavo quella cassetta anche col walkman durante le gite. Qualche compagno mi chiedeva Che ascolti? Io lo dicevo, posavo le cuffie qualche secondo sulle loro orecchie Che buffo -dicevano- sembra inglese. A volte mi chiedevano di più, mi domandavano come fossero i posti dove avevo vissuto o perché ci fosse la guerra e io avrei voluto dire di più ma non riuscivo. Faceva male e non mi sentivo in diritto di soffrire perché eravamo andati via (fuggiti) e andavamo ancora al mare e io andavo a scuola e alle gite. E non capivo chi combatteva chi e per cosa. Non chiedevo per paura di fare domande stupide ma più di tutto temevo le risposte. I miei genitori erano annichiliti, sgomenti, increduli. Eppure sono riusciti a farci proseguire una infanzia bella e piena d’amore. La parvenza di vita normale rendeva ancora più doloroso il pensiero che si affacciava repentino e crudele: il tuo paese si sta autodistruggendo e tu stai crescendo in un altrove dove sei prigioniera anche se non sembra. Erano pensieri molto spaventosi per una bambina, lo sarebbero per chiunque. Qualche mese fa mia mamma mi ha chiesto -intendendola come un’iperbole- Allora tutto il popolo sarebbe dovuto andare in terapia dopo, venti milioni di persone! ma io le ho risposto, seria, Sì, proprio così. Era straniante con questo stato d’animo pesante ascoltare il pop sdolcinato di Massimo che sembrava arrivare da un altro secolo, non da appena pochi mesi prima. Un po’ come ora ci appaiono lontane le settimane in cui potevamo ancora uscire.

Massimo scriveva e cantava

La tua piccola cameretta
come una scatola azzurra
fuori una notte fredda 
senza luna

Non so se è senza luna la notte fuori, ma ora piove, e sono inquieta. I grandi sconvolgimenti tirano fuori qualcosa che viene da lontano.

È andato tutto male, dopo la guerra. Il dopoguerra è stato peggio della guerra stessa. Che è stata orribile e nefasta, ma perlomeno ha avuto una durata circoscrivibile, anche emotivamente. I grotteschi accordi di Dayton hanno chiuso la fase bellica e aperto un dopo che non si è mai chiuso, e quel veleno si è diluito come nei prodotti omeopatici, solo che è ancora attivo. Dopo la guerra è andato tutto male perché i buoni che già avevano perso la guerra hanno continuato a pagare il prezzo più alto. Hanno faticato a ricostruire le loro case o a farvi ritorno, a far studiare i figli o evitare che migrassero, a fare una vita se non migliore almeno non peggiore di prima. I cattivi, che già avevano vinto la loro stupida sporca guerra, hanno continuato in varie forme a governare i nuovi paesi con sospetta affinità e malcelata sintonia.
La gran parte delle persone che conoscevo ha perso la guerra. Ne è uscita impoverita, espatriata, disillusa, scoraggiata, traumatizzata senza saperlo e senza potersene occupare. Non c’è stato tempo e modo di piangere la patria perduta, per divieto dei cattivi vittoriosi o per autocensura di noi che siamo stati alla finestra a guardare, impotenti e sgomenti. Le persone normali che frequentavo, le persone buone, hanno perso la guerra. Un’enorme massa di sommersi, anche quando avevano l’apparenza di salvati.
È di questo che ho paura oggi.

*

Adesso è sereno fuori, anche se è ancora buio. La notte è quieta, io sono inquieta. Ma sono anche felice.

Accanto a me dorme mia figlia Daria che compie 9 mesi di sconfinato amore, e la vita non è mai stata così degna di essere vissuta. Certo, l’inquietudine arriva da lontano e tornerà tutte le volte che ci saranno delle difficoltà dentro e fuori di me. La rabbia e un sentimento strabordante di ingiustizia mi accompagneranno sempre quando ripenserò alla guerra civile in Iugoslavia, e ancora di più al dopoguerra. La moltitudine triste di sommersi ha vissuto gli ultimi decenni in una solitudine emotiva che non ha concesso loro nemmeno il balsamo della condivisione. Ho scritto non so quanti caratteri già solo in questo post (sto facendo la prima stesura a mano) e non ho tirato fuori quasi nulla di quel dolore profondo. Estraggo pochi lacerti e fa già troppo male, prevale l’autoconservazione e la voglia di restare in superficie. Ho paura che questa pandemia sommerga molti nella povertà (non solo materiale) e nella solitudine, e che pochi si salvino, e non i più meritevoli. Temo che qualcuno possa approfittare del post pandemia come succede nei dopoguerra. E che alla fine questo esito venga accettato come inevitabile anziché giudicato come ingiusto. Non so se queste mie paure siano fondate, sensate o strampalate. Sono sensazioni che non hanno fondamento nella ragione ma in un vissuto in qualche modo compresso, come il gas in una bomboletta. Come detto, arrivano da lontano. Non posso trarre beneficio per il mio malessere pensando alla grande il proverbiale barca comune. Condivido la croce della guerra civile con milioni di iugoslavi sommersi, e non ci siamo potuti consolare in nessun modo.
So di un gruppo di profughi della mia città natale che si incontra in una kafana nel posto dove sono finiti a vivere. Al muro della sala dove si trovano a bere hanno appeso la foto della fortezza che da oltre mille anni fa ombra alle case e strade di Knin e quando alzano un poco il gomito si mettono tutti a piangere. Dovrei ridere, ma mi si stringe sempre il cuore a figurarmi la scena. Quando si perde si è soli, anche in mezzo agli altri. 
È giusto l’appello a bandire le metafore guerresche questi giorni. Non siamo in guerra. E così il parallelismo più grande rischia di essere purtroppo quello con i sommersi dalla situazione e con le ingiustizie che dovranno subire. Io non posso lasciarmi andare alla disperazione perché Daria dorme qui accanto con l’abbandono dei neonati e perché un suo sorriso sbriciola ogni paura possibile. Ma mi fa soffrire pensare che è più probabile un aumento delle ingiustizie già mostruose che non una loro diminuzione. Poiché però non siamo in guerra, anche se siamo in una brutta situazione, spero che almeno qualcosa, collettivamente e individualmente, risulterà positivo. Scaravento qui i miei desideri ingenui sparsi.

  • Voglia di godere di quelle strade senza auto che abbiamo agognato dai balconi.
  • Rispetto e riscoperta di varie forme di natura.
  • Riflessione sulle interconnessioni, tra gli uomini ma anche tra i paesi e tra i processi produttivi, logistici e distributivi.
  • L’Internazionale, anche non socialista.
  • Valorizzare, spargere e apprezzare le coccole.
  • L’esistenza dei più fragili, da non negare.
  • Le piazze, i crocicchi, i muretti, i giardini, i portici, ma pure i lungofiume e i viali sottoutilizzati di periferia.
  • Il lavoro come impegno e come risultato non come occupazione per ore e ore di una scrivania.
  • Meno parole, ma meglio scelte (questo post è un pessimo esempio, lo so).
  • Nazionalismi al rogo.
  • Rigetto del poverty shaming.
  • Il lievito madre e tutte le robe buone che vi ho visto preparare usandolo.

*

È sempre buio fuori e tutto tace. Non una macchina passa, e questo è comunque bello.

L’inquietudine che arriva da lontano perlomeno la so riconoscere, ho dovuto imparare a conviverci. Aver imparato a condividere frammenti di questo dolore è un antidoto non pienamente efficace, ma bastevole, anche per la generosità di molte orecchie che con affetto si sono prestate all’ascolto. Non so come ne usciremo, e forse qualche parallelismo lo riconoscerò. Ma non siamo in guerra. È già una buona cosa. Lunga vita al lievito madre! 

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7 balcanici motivi per vedere la serie croata Novine | The paper

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La serie imperdibile dell’anno non è né americana né inglese. E non è nemmeno italiana. L’anno è ormai a metà, ma voi dedicatevi a guardare Novine e non ve ne pentirete. La trovate su Netflix con il titolo internazionale The paper, perché “novine” significa giornale quotidiano, e delle vicende di un giornale tratta, con una qualità che forse non ti aspetteresti da una produzione tutta croata. Chi scrive l’ha iniziata a vedere per motivi biografici, essendo nata in Dalmazia che della Croazia è la regione costiera più bella, e per noia, avendo una volta oziosamente digitato “serbocroatian” nella barra di ricerca di Netflix, poi dice che divanarsi non serve a nulla… Ma voi potete vederla anche senza avere un cognome in -ić perché le cosebelle sono universali. Ecco 7 buonissimi motivi per non perderla.

Europea, ma esotica.

La croazia è un vicino lontano, di cui sappiamo pochissimo perché i media se ne disinteressano, e che visitare una settimana d’estate non basta. Guardando Novine la si avverte esattamente così, vicina come tanti altri paesi dell’UE (dal 2014) e remota come può esserlo un luogo in cui “prima della guerra” vuol dire meno di trenta anni fa.

Dark, molto dark, e cattivi cattivissimi.

Novine racconta la vita travagliata di una redazione di giornalisti bravi e dediti, alle prese con lo strapotere di politici, poliziotti, giudici e uomini e donne d’affari dal passato sempre inevitabilmente opaco e privi di ogni scrupolo morale. Il più pulito ha la rogna, e House of cards pare un collegio di educande al confronto.

Tutti i mali del sovranismo, spiegati bene.

Soprattutto nella seconda stagione (uscita su Netflix a inizio di quest’anno) la connessione tra deriva morale e nazionalismo cieco è palese e raccontata attraverso le azioni, i gesti e le parole di personaggi eterogenei tra loro, di parti politiche avverse e di estrazioni tra le più varie. Non si scende mai nella retorica del “tutto un magna magna”, però: le contraddizioni sono mostrate in modo piano e crudo, con una sensazione di inevitabilità che mette angoscia ma tiene pure incollati allo schermo.

Fiume fotogenica.

Novine non è girato né ambientato nella scontata capitale Zagabria, ma in una città costiera e portuale che fu a lungo italiana. Rijeka d’inverno è una scenografia livida perfetta, ripresa da ogni angolazione anche con droni parsimoniosi e benevoli. Ci sono le calli del centro, i portoni socialisti di periferia, le opulente stanze del potere, le ville di design in collina, i bar dall’aria densa.

Croatian way of life, sesso fumo e alcool.

Non siamo più abituati (per fortuna) a vedere fumare ovunque, dal bar al ristorante alla casa di qualcun altro. In Novine tutti fumano e bevono (whisky, soprattutto) tantissimo, in continuazione e con voluttà disperata. Può essere utile per ricordarci che tutto sommato stiamo meglio ora che si fuma solo all’aperto, ma anche per rivedere dei gesti che da decenni abbiamo associato ai film su crimini e complotti, con gente che fuma a prescindere, ovunque, e se ne frega. Persino per i non fumatori, liberatorio.

Il serbocroato in tante sfumature, imprecazioni comprese.

Le serie (e internet) hanno compiuto il miracolo che tutte le VHS di English movie collection non potevano sperare di raggiungere. È molto bello godersi le voci originali degli attori e aiutarsi con i sottotitoli se lo slang di Boston (o di LA, o di Londra) non sono alla nostra portata. È altrettanto bello però godersi lingue di cui non capiamo quasi nulla ma che sono intimamente legate all’ambientazione che le caratterizza. Pur trattando temi universali in cui vi riconoscerete di certo, Novine è balcanica fino al midollo, e i personaggi devono parlare una lingua slava. Godetevi Novine in lingua, assaporate gli accenti (una delle giornaliste è serba e non lo nasconde), non arrossite per le parolacce e bestemmie a ripetizione, fanno parte del gioco.

La qualità sta dove si sa esprimerla.

Attori bravi, fotografia curata e chirurgica, regia sapiente del folletto pluripremiato del cinema croato Dalibor Matanić, quello di Sole alto. La realizzazione della serie è stata all’altezza delle ambizioni della produzione, e dei migliori prodotti internazionali in circolazione.
Novine parla di noi e a noi senza pretese universalistiche o pipponi morali. Lo fa perché chi meglio di un vicino lontano può aiutarci a fare quel passetto indietro per guardarsi un po’ da fuori, che è sempre tanto utile quanto difficile? Ci pare che il vantaggio valga lo sforzo di saggiare la prima puntata.

Be cool, watch The paper. O, meglio. Budite pametni, gledajte Novine.

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Buon Natale, di nuovo

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Radovan Prijic arrivò nel villaggio del water rosa nel 1689 alla guida di 48 famiglie che verosimilmente espletavano ancora le funzioni corporali senza supporti ceramici. Arrivavano da varie tappe di una peregrinazione un po’ bellica e un po’ di sostentamento. La leggenda dice che come ricompensa per un aiuto contro i turchi gli avessero detto Fa’ un giro col cavallo dall’alba al tramonto e quel che ci sta dentro è per te e per le famiglie al tuo seguito.

Provo una pacata fascinazione per questo antenato dal nome allegro e dal volto ignoto che avrà guardato mille volte come me la Dinara da sotto in su, bruciata d’estate, innevata d’inverno, sempre battuta dal vento che soffia forte dove sono nati i Prijic. Mi chiedo spesso come fosse la vita di quelle 48 famiglie, come trascorressero le loro giornate nei luoghi che ho tanto amato e che amo ancora nonostante tutto, perché ti possono espropriare la casa e rubare la tazza del water, ma non possono toglierti i ricordi.

Quando si avvicina il 7 gennaio penso spesso che quei Prijic certamente aspettavano il loro Natale con molta più trepidazione di quanto non succedesse quando io ero piccola e avevo le idee molto confuse su tutta la questione religiosa. Andavano a messa? Si faceva di mezzanotte come oggi quella cattolica? Cosa mangiavano? Si scambiavano doni? Avevano con sé le icone tipiche del culto ortodosso? Non so nulla di loro, e non ho modo di sapere nulla di loro. Ci penso di rado, ma quando ci penso mi prende il solito nodo alla gola che non so spiegare. Si tratta di gente morta e sepolta da tempo, ma in qualche modo sono legata a quella avventura e alla scelta che fecero di stabilirsi lì, dove nasce la Krka e soffia gagliarda la bora.

I Balcani di fine ‘600 dovevano essere un posto piuttosto impegnativo da girare con vecchi donne e bambini al seguito. Il Ponte sulla Drina è ambientato a diverse centinaia di chilometri da dove sono nata io, ma leggendo quelle pagine magnifiche mi si era attaccato addosso un certo mal dei balcani come se avessi sentito il peso di quei secoli che sembrano millenni, con le dominazioni che si susseguono e le popolazioni che scoprono se è il loro turno nell’essere perseguitati, vessati o premiati.

Non sono religiosa ma sono molto spirituale, ha detto poco tempo fa una donna che ammiro molto e che è stata un sostegno prezioso in questo ultimo periodo così difficile. È un bel modo per prendere le distanze senza rinnegare un collegamento emotivo che è sciocco mettere a tacere. Non mi identifico in nessuna religione, non frequento luoghi di culto se non per godimento artistico e architettonico, ma sono nata in una famiglia di antiche tradizioni cristiane ortodosse, e verso questa eredità storica e umana provo molta tenerezza e un po’ di senso di responsabilità.

Forse Radovan Prijic sarebbe deluso se sapesse che la sua bisbisbisnipote non va a messa e non è nemmeno battezzata. Ma credo sarebbe contento nel sapere che la stessa nipote si emoziona quando pensa a quel giro a cavallo nel 1689 e immagina la sera di Natale di quelle famiglie che festeggiavano quando un’altra parte del mondo cristiano si congeda anche dall’Epifania chiudendo un pezzo importante dell’anno liturgico. Chissà cosa sapevano dello Scisma d’Oriente e della questione del filioque. Chissà se avevano vicini cattolici come avevo io da bambina, senza saperlo.

La guerra civile che ha insanguinato il paese in cui sono nata non è stata una guerra religiosa. Ma la religione è stata un simbolo di divisione “facile” e anche mediaticamente efficace per raccontare il senso di quel che un senso non l’aveva. Io sono italiana e sono nata iugoslava. Sono dalmata, sono croata e sono serba, ma non mi faccio dire cosa sono da qualcun altro, mai. Festeggio il Natale cattolico perché così ho imparato a fare nel paese dove vivo, perché anche i bambini non battezzati possono fare i lavoretti natalizi con il DAS e la pittura a tempera. Festeggio anche il Natale ortodosso, perché sono nata dove Radovan aveva scelto la sua casa e quella dei suoi discendenti, almeno fino a me e a mia sorella.

Amo fare i regali alle persone che amo. Ma quest’anno ho scelto di farne solo a persone che non conosco, dedicando questo pensiero a chi mi è stato accanto con tante carezze, persino a distanza. Ci sono tantissimi rifugiati nel mondo che cercano dove potersi sentire a casa e riavere il loro water rosa. Pochi di loro saranno ordotossi, ma del resto non lo sono nemmeno io. Eppure a tutti loro, alle persone che amo e a voi tutti auguro Buon Natale, di nuovo.

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Quando Milošević e Tuđman rubarono la tazza del water rosa

Questo post parlerà di tazze del water. Chi mi frequenta con una certa regolarità sa bene che non parlo di funzioni corporali, quindi è parecchio strano che io scriva di tazze del water. Ma sempre più mi sto rassegnando al fatto che la vita è fatta anche di funzioni corporali e di necessità di cui per anni ho sognato di poter fare a meno, come dormire.

Questa storia è una storia privata, che rendo pubblica per un misto di amore, terrore, odio, paura per quell’odio, narcisismo, esasperazione, rabbia, schifo, malinconia, (iugo)nostalgia, voglia sopita e rimossa di vendetta, gratitudine. E tanto altro ancora. Questa storia è una storia privata e come sempre faticherà a scriversi, perché se sono pudica rispetto alle funzioni del corpo figuriamoci rispetto alle funzioni del cuore.

La prima tazza

Quando mio nonno era andato in pensione, lui e la nonna erano tornati a vivere nel “selo”. Il selo è un piccolo centro agreste che gravita attorno alla città, ma già solo sul concetto di selo dovrei scrivere un post a parte. Diciamo “villaggio”, con molta approssimazione. Poiché avevano vissuto in città nelle “case dei ferrovieri” per tanti anni, non avevano mai costruito il bagno nella casa al villaggio, e ora era ora. Bisognava dunque comprare una tazza del water. “Vado in città a prenderla” disse il nonno. “Biljo, come la prendo?” Cosa poteva rispondere una bambina di sette anni? “Rosa! Dido, prendila rosa!” E giù a ridere. (Ridevo sempre.) Grandissima fu la mia sorpresa quando il nonno tornò dalla città con una tazza del water rosa. Voglio dire, non pensavo che il nonno avrebbe preso davvero una tazza rosa. E invece mio nonno era così: semplicemente straordinario. E così per un paio d’anni le nostre funzioni corporali poterono contare su quella tazza rosa, le volte che andavamo a trovare i nonni nel corso di quella strana e meravigliosa vita a metà tra le due sponde dell’Adriatico selvaggio.

La barbarie, e la seconda tazza

Quando la città, il villaggio dei miei nonni e tutti i villaggi attorno furono saccheggiati, i saccheggiatori si portarono via anche la tazza rosa. Poi forse semplicemente l’avevano rotta e fatta in mille pezzi. Ma invece “Hanno portato via ogni cosa, anche la tazza rosa che aveva scelto Biljana” dicevano le cronache familiari. Perché come si raccontano e si tramandano le storie è importante. Di fatto quella tazza rosa era stata fatta sparire, portandosi via la mia risata e la cura che aveva avuto mio nonno nell’assecondare la mia richiesta birichina, perché in fondo se puoi far felice qualcuno perché non dovresti farlo? I miei nonni erano fuggiti assieme a centinaia di migliaia di persone poco prima di quel saccheggio e la loro epopea meriterebbe che io trovassi la forza di raccontarla e condividerla. Ma questo post parla più modestamente di tazze del water, e bisognerà pur quagliare. I miei nonni resistettero qualche tempo in Italia da noi e da mia zia. Ma poi coraggiosamente o per incoscienza o inevitabilmente tornarono appena poterono. “Hanno portato via tutto, persino la tazza rosa di Biljana” aveva raccontato il nonno al telefono. “E tu cosa hai fatto?” aveva chiesto mio papà. “Sono andato in città a comprare una tazza del water, perché la nonna potesse usare il bagno.” Nessuna guerra, nessun saccheggio, nessuna malattia (come scoprimmo con dolore poi) potevano togliere a mio nonno l’amore sconfinato per i suoi e la voglia di mostrarlo sempre. La stessa cura con cui aveva risposto al mio innocente capriccio di bambina in tempo di pace la metteva nel risparmiare a mia nonna l’umiliazione di non potersi occupare delle funzioni corporali con normalità dopo la guerra.

Epilogo: di tazza in tazza

Oggi è la giornata del rifugiato. Non sono stata rifugiata per caso, e per un’intuizione di mio papà che meriterebbe un lungo e sofferto racconto. Ma questo post parla di tazze del water, e immaginate incamminarvi verso l’ignoto con la morte nel cuore e il pensiero alla prossima tazza del water su cui vi potrete sedere, che chissà tra quanto tempo e tra quanto spazio sarà. Non sono stata rifugiata per un pelo, e ancora combatto con il più assurdo dei sensi di colpa. Sono stati rifugiati quasi tutti i miei familiari e quasi tutti gli amici e conoscenti della città dove sono nata, le mie compagne di giochi, gli alunni di mia mamma, i giocatori di mio papà. Sono stati rifugiati negli anni Novanta del Novecento in Europa, per colpa di chi quella guerra l’ha voluta e di chi non l’ha voluta fermare. Quando sono tornata in città dopo più di sette infiniti anni in casa dei nonni c’era la tazza bianca di quel primo viaggio in città di mio nonno. E c’erano anche delle coperte grigie che pizzicavano un po’. E delle scodelle semplici in alluminio di foggia militaresca. Pochi oggetti uguali per tutti, come in un involontario buffo omaggio alla repubblica socialista seppellita da quella guerra. Un kit di sopravvivenza indispensabile, portato dall’UNHCR e da pochissime altre organizzazioni (mia nonna parlava sempre bene di certe chiese protestanti, mi spiace non saperne di più). Provo ancora un dolore che non riesco a dire per una guerra civile di cui non mi capacito, e di odio verso chi l’ha scatenata. Ma sono grata a chi ha aiutato i miei nonni durante la dolorosa marcia, e a chi li ha sostenuti in un altrettanto doloroso ritorno a una casa che non era più casa.

Il mondo fa talmente schifo che può capitarvi che qualcuno vi porti via tutto, pure la tazza del cesso. Ma se siete fortunati magari avete chi vi ama tanto da avervi regalato una tazza del water del colore che volevate. E magari pure se vi hanno portato via tutto qualcuno durante una dolorosa marcia vi apre la porta di casa consentendovi di pensare alle funzioni corporali. E qualcun altro vi aiuta poi a cercare una vostra nuova tazza del water -di qualunque colore sia- a casa vostra anche se non sarà più casa, o da qualche parte del mondo, perché ciascuno che ama ne merita un pezzetto.

E ora pensate, fate, donate.

***

Il titolo del post si ispira a un libro per ragazzi molto bello, Quando Hitler rubò il coniglio rosa: regalatelo!

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7 punti per cui Tangible.is good (e il ciabattino ha sempre le scarpe rotte)

Ho dovuto dire addio a un mio fornitore amatissimo. In una occasione normale la circostanza mi avrebbe spezzato il cuore, perché mi pesa lasciare i fornitori bravi. Ma in questo caso l’occasione era speciale: il fornitore ha cambiato pelle. Quindi ho detto addio a un bel bruco per salutare una meravigliosa farfalla.

Fatti e istruzioni:

  • GNV&Partners diventa Tangible dopo un lungo percorso di rebranding
  • Se li conosce(va)te, leggete pure ma poi fatevelo raccontare anche da loro, il percorso
  • Se non li conosce(va)te beati voi: avete la fortuna di conoscerli ora! Sbirciate almeno in velocità il loro sito dopo (o meglio prima) di aver letto qui

Le mie impressioni

1. Un nome internazionale ma di derivazione latina. Concreto e quasi sinestesico

Tangible in quanto parola è una promessa (saremo tangibili, pare dire). E quindi è un progetto in sé, che è quello che fanno i professionisti di Tangible. E ha questo suono a raffica che promette idee, scambi, confronti.

2. Fatto a mano per parlare di esperienze digitali: dai post-it ai bit

Commovente che chi lavora oggi prevalentemente col computer sia cultore della calligrafia e della bellezza della scrittura a mano. Del resto io ho scoperto #scriviamoamano grazie a una regina del web come Alessandra. Il logo di Tangible è bello senza strafare, netto ma con le meravigliose imprecisioni del tratto a mano, preludio degli sketch imperfetti ma utilissimi che userete se avrete la fortuna di lavorare con questo team.

3. Magenta GNV ma immerso in colori che lo riequilibrano con garbo

Rebranding vuol dire non ripartire da zero (Ricomincio da tre, direbbe Troisi: e in comunicazione vale sempre, ché non si butta via niente). Di GNV&Partners è stato mantenuto un colore così caro ai graphic designer come il magenta, perché è un po’ materia prima (in quanto colore base) e un po’ già manufatto (in quanto dotato di personalità e –come dice Nicolò– molto “umano”).

4. Carattere anche con un carattere neutro: la rivincita del bastone

Con un logo così, la scelta del set tipografico è ardua. Approvo la volontà di non “sbocciare” come si dice a Bologna. E ammiro la capacità di selezionare in ogni caso un carattere pulito ma riconoscibile, che a ogni navigazione sul sito sento sempre più come “ah, sì: la font di Tangible”.

5. Da desktop bellissimo, da mobile te ne innamori

Il brand new brand immerso nel suo ambiente naturale funziona a meraviglia. Ho letto tutti i testi manco dovessi fare proofreading (che ho fatto, ma i refusi si lavano in privato). Mi piace l’esattezza delle frasi che hanno usato, non una di più, e certamente non una di meno. Questa stesso pezzo che state leggendo si compone di un sacco di parole inutili che avrei potuto e dovuto tagliare. Scrivo sempre troppo di getto e poco con struttura. Nel sito di Tangible no.

6. Foto facce figure… in delizioso equilibrio

So bene quanto sia difficile raccontarsi come agenzia / società di consulenza. Il B2B è una fregatura da questo punto di vista. Vendere la nutella è facile, vendere la ditta (“ditta” ♥) che trasporta la nutella è difficile. Vendere post-it è facile, vendere gente bravissima che usa post-it per lavorare è difficile. Ma se chiami un fotografo per uno shooting comediocomanda e non ti vergogni di qualche faccia buffa o posa insolita, materiale per dare pepe al sito ne hai. E poi ci sono le animazioni, gli schemini: belli e mai superflui. Resta vera una cosa: per quando bello sia il loro sito, i siti che fanno per gli altri lo sono di più. Ah, i ciabattini.

7. E infine, chicca: una url da bacetti

Ma quanto siete bravi quando fate lo sforzo di non fare la scelta più ovvia, e di non perdere l’occasione per fare anche di un dettaglio un pezzo di identità? L’estensione .is mi permette di fare il titolo di questo post, ma consente anche mille giochi di senso su Tangible is… Un’altra promessa, proprio come il nome.

  • Ho scritto questo post per Medium ma si trova anche qua perché POSSE.
  • Questo post è stato scritto con un vecchio iPad sull’app di Medium e pensato per Medium dove vorrei scrivere non troppo saltuariamente di robe di lavoro & dintorni.
  • Questo post non è una marchetta nel senso che non mi hanno pagato. Del resto sono io che pago loro. Soldi ben spesi.
  • Addio bruco giennevì, sai che ti chiamavano anche giennevù? Benvenuto Tangible, benvenuta consapevolezza.
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A San Nicola il Sole è alto

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Nella lista dei migliori film della mia rivista preferita c’è il film girato nella mia città e scrivo che è ancora San Nicola che è la festa della mia famiglia. E detta così sembrerebbe quasi che ci sia da festeggiare invece sono triste anche se questo annus horribilis volge al termine e forse ci darà un po’ di tregua. Sole alto è un film bello anche se non me lo ricordo tanto bene e le recensioni andrebbero scritte subito dopo aver visto il film. Per dire avrebbe molto più senso scrivere di È solo la fine del mondo che l’ho visto da poco anche se non è bello come Mommy e in qualche snap ho detto pure che alla fine non vuoi tanto bene a nessuno dei personaggi, mentre ero in bici. Ma sono davvero triste ed è San Nicola e i nonni non ci sono più e penso che vorrei piangere fino a Capodanno quando viene Nonno Gelo. Che poi sarebbe San Nicola, e alla fine tutto si tiene. Non capirete mai Sole alto, ma vedetelo lo stesso.

Dalibor Matanić ha girato questo film a Knin ma non gli ho chiesto perché. Uscita dalla Sala estense dove l’avevo visto in anteprima italiana al Festival di Internazionale a Ferrara gli ho stretto la mano, fatto i complimenti e detto che sono di Knin. Che è vero e falso insieme. Perché è come dire Sono di Fantàsia, Sono di Babilonia, Sono di Mordor. Lui ha detto qualcosa come Ah, carino! a riprova del fatto che non è quasi mai una buona idea approfondire con gli artisti. (Questa memoria è un po’ ingenerosa, perché mi lascio influenzare da mio papà che ha spesso dei giudizi sommari che travolgono ogni mio tentativo di pensiero autonomo.)

Non gliel’ho chiesto, ma forse il film è stato girato a Knin perché costava poco. O forse perché c’era natura selvaggia abbastanza e desolazione abbastanza e villaggi semiabbandonati abbastanza per girare questo film che sono tre ma che è sempre lo stesso e infatti gli attori sono sempre loro due anche se hanno nomi diversi e capigliature diverse. Un film sulla guerra, chiaro, perché un film di un croato molto zagabrese girato a Knin che vince premi internazionali con attrice serba di che cosa vuoi che parli, Che cliché signora mia, questi balcanici sempre a parlare delle loro guerre quando la gente muore ad Aleppo. Non capirete mai i Balcani, ma andateci lo stesso.

Ho sempre pensato che se avessi scritto un libro avrebbe parlato della guerra. In un modo o nell’altro. Anche se mi censuro un sacco di volte. Perché penso quasi sempre che a voi giustamente non ve ne frega e v’annoia. Quando sono triste piango. Ma non vi cerco perché penso che vi stufo. L’ho pensato per vent’anni, da che è finita la guerra, ma oggi è Sveti Nikola ed è la festa della mia famiglia e un bellissimo film è stato girato nei dintorni scenograficissimi della mia città e se anche vi stufate vi scrivo quanto è stato doloroso vederlo e quanto la guerra faccia male anche se è finita da ventuno anni e qualche mese. Era iniziata quattro lunghi anni prima, che è quando è ambientato il primo triste episodio. Loro sono giovani e vanno al fiume. Lei è bellissima e lui lo sa. Lei è bellissima e lui non ci crede quasi che una bella così gli dia retta. Lui suona la tromba, ma mentre spirano forte venti di guerra non è il caso di mettersi a suonare uno strumento tanto marziale. Non capirete mai Jelena e Ivan, ma andateli a vedere lo stesso.

Andarsene è stato doloroso. Ne ho ricordi vividi e angosciosi. Faceva caldo come fa sempre caldo nei giorni attorno al mio compleanno, e il Sole era alto mentre passavamo da un posto di blocco all’altro. Andarsene è stato doloroso, ma mai come ritornare. Nel secondo episodio c’è un ritorno. Ed è tutto sgarrupato e tutto triste e faticoso. Ricordo i colpi di proiettile in tutti i muri e tutto che mi sembrava minuscolo perché ero andata via che ero un metro e quaranta sì e no. E nel secondo episodio c’è una scena di sesso intensa e piuttosto esplicita che è sempre un poco strano vedere una scena di sesso al cinema (anche se la Sala estense non è proprio un cinema) seduta accanto ai tuoi genitori. E la scena di sesso esplicita finisce con un To je to che è poco traducibile e che mi chiedo come abbiano devastato come al solito nel doppiaggio che come al solito chi gli piace il doppiaggio e i doppiatori italiani più bravi del mondo verrà defenestrato. Non capirete mai Nataša e Ante anche se fate del sesso esplicito, ma andateli a vedere lo stesso.

Non sono una grande fan dei finali. Un brutto finale non mi rovinerà un film amatissimo. E viceversa un buon finale non risolleverà le sorti di una pellicola già condannata da un giudizio sommario di impronta paterna. Non me lo ricordo bene come finisce Sole alto. Meglio così. Così non faccio spoiler e così Ines non mi sgrida. Del terzo episodio mi piace che i protagonisti siano miei coetanei più o meno e che siano smarriti e incazzati anche se pure loro si mordono la lingua perché tanto non serve a niente. C’è una festa al lago o al fiume che devono essere uno dei miei laghi o dei miei fiumi (i miei fiumi, come Ungaretti). C’è il tentativo di sottrarsi all’impegno perché forse è più facile. Per sopravvivere all’assurdo, al passato che devi archiviare ma mica è una pratica, e comunque ti sei scordato l’ordine alfabetico per farlo. E poi quale alfabeto vale, che sono due e manco nello stesso ordine? Lei è serba e lui è croato, o viceversa. Ma vi siete mica mai innamorati pensando che era vietato, voi? Non capirete mai Marija e Luka, ma andateli a vedere lo stesso.

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Tutti al cinema! 3 pseudorecensioni senza sottotitoli

Sto vedendo tanti bei film in sala e ne sono felice. Essendo una frantumascatole fissata con la v.o. sottotitolata, vedere un film italiano al cinema è liberatorio perché posso andare in qualunque sala lo facciano senza controllare che non sia orrendamente doppiato come il 99% dei film stranieri. (Sono seria: il primo che dice che i doppiatori italiani sono i migliori della galassia lo defenèstro.)

Per questo, avendo visto tre film italiani di fila che mi hanno entusiasmato, ho pensato fosse un ottimo segnale per un cinema che ha una specie di dovere morale d’esser grande, e ho pure pensato bene di farvene recensioni totalmente destrutturate e inutili se non ne avete lette di ordinate e pregnanti.

I tre film non potrebbero essere più diversi tra loro.

Perfetti sconosciuti e non dite “quello dei cellulari”

Poi lo potete chiamare come vi pare, eh, ma davvero la storia dei telefoni è uno spunto (fertile, utile e attuale, ci mancherebbe) per parlare di rapporti, di amicizia, matrimonio, genitori, convivenze e nuovi amori. Lo smartphone e l’esser costantemente connessi e chini sul suo schermo sono pretesti, non feticci di una denuncia antitecnologica.

E tra le storielle e storiacce di corna vere e finte, di tradimenti e incroci di talamo, spuntano minoritari ─ma secondo me molto azzeccati─ episodi meno pruriginosi ma ugualmente “scomodi”. Quali sono i pensieri e le azioni su cui taciamo? Non è solo il filarino collo sconosciuto di Facebook. Non diciamo dei preservativi dati alla figlia adolescente; dell’ospizio contattato pensando alla suocera invadente; non diciamo che abbiamo messo in vendita la licenza del tassì vergognandoci dell’ennesimo fallimento dopo i beagle, le sigarette elettroniche… (i dettagli: quanto sono importanti i dettagli?).

Se le questioni vere o presunte di letto ci fanno ridere e magari pensare a una cancellazione di ogni cronologia del telefono all’uscita dal cinema, sono stati questi altri argomenti quotidiani a farmi riflettere e alla fine a farmi amare questo piccolo film che non ha per niente il sapore del cinema indipendente intelletualoide ma che si presenta per quel che è: un lavoro ben fatto, ben scritto (la scrittura: quanto è importante la scrittura?) e quasi sempre ben interpretato.

Due appunti da frantumascatole: alla Smutnjak un paio di battute gliele avrei fatte rigirare; basta basta basta con i titoli di testa/coda che giocano su due corpi diversi della stessa font (tipo light + bold).

Fuocoammare che vuol dire quel che dice

Mi credevo chissà che significato dietro al titolo, invece si riferisce letteralmente al fuoco che si specchia nel mare, quindi “fuoco al/sul mare”. Come al solito non capisco una fava, ma mi consolo perché una volta una compagna di studi mi disse Massì, dai: quel film di Fellini col titolo in una lingua straniera… ed era Amarcord. Insomma, c’è sempre chi fa peggio.

Amo i documentari che riescono a essere belli e utili senza voce off, senza didascalie con simulazione di typewriting, senza infografiche. Fuocoammare è quanto di più lontano dallo “spiegone” si possa immaginare, eppure si fa anche testimonianza.

È il racconto poetico di un frammento di realtà che non si spaccia per verità assoluta. Il regista racconta a Radiotre che candiderebbe i lampedusani al Nobel per la Pace, ma li dipinge senza farne agiografia alcuna, indugiando anzi su dettagli di divertente umanità come il risucchio di una pasta lunga col sugo di pesce che a me balcanica impenitente ha suscitato riso e una punta di invidia. (Sono una frana ad arrotolare gli spaghetti, deve essere una dote genetica mancante cui decenni di vita in Italia non possono sopperire.)

Ma Jeeg Robot il cartone ve lo ricordavate?

“Parliamo di robe serie: avete visto Jeeg Robot?” ho chiesto ieri a pranzo, ed ero seria davvero. Il cinema italiano qua ha fatto “clac” e s’è inventato qualcosa che non c’era e il primo che dice Hanno copiato gli americani fa la fine di quello amante dei doppiatori. A me questo pastiche cinematografico ha divertito come una ragazzina. Fa ridere, fa ribrezzo, fa ogni tanto tenerezza e mette pure un po’ di malinconia.

Come non amare un film in cui contro il cattivone magnifico viene scagliata la tazza di un water dello stadio Olimpico? In cui lo stadio Olimpico viene opportunamente classificato più in alto per rilevanza del Parlamento? In cui la strategia della tensione edizione 2016 è la macchietta consapevole di quella di anni passati? In cui Buona Domenica viene confusa continuamente ora con il Grande Fratello ora con Xfactor? E via così.

Esci dal cinema che pensi che Gotham City è sempre stata Torbellamonaca e non ce ne eravamo mai accorti.

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giringiri

Gioco di ruolo EXPO

expo, supermercato del futuro coop

Nei siti web della PA anni fa andava molto di moda prevedere una navigazione particolare chiedendo all’incauto navigante Sei un cittadino? Sei un’impresa? Sei un fornitore? Sei un’altra PA? Faceva molto ridere e vivaddio pare essere passato di moda. Ecco, leggete questa sorta di bizzarra e poco soddisfacente recensione immaginando un percorso personalizzato. Tipo. Vai a Milano per l’EXPO se…

…sei un bambino?

Preparati a divertirti meno che a Mirabilandia ma più che in un museo standard (meta-autocit. dall’imperdibile post di Ilaria Mauric). C’è un sacco da esplorare. Implora i tuoi di lasciarti almeno un po’ da solo, macchine non ce n’è e prometti di fare il bravo bravissimo.

…sei un cooperatore?

Che la cooperazione sponsorizza e tanto te ne accorgerai solo tu. Però il supermercato del futuro va visto. No, nessuno penserà che sia la cooperazione del futuro, vanno tutti a vedere il robot che insacchetta la frutta (vacci pure tu, eh: è fico). E quindi due suggerimenti. 1) Chiediti perché la cooperazione c’è ma non si vede, indaghiamo assieme i motivi della nostra incapacità di raccontarci in maniera contemporanea come movimento di persone, lavoratori, utenti/consumatori (anche se qualcuno non ama quest’ultima etichetta), abitanti e via così. 2) Usa il “prototipo colossale” (definizione fulminante di Ilaria, ancora lei) e testalo in tutti i modi. Immaginati tra dieci o quindici anni: vorresti fare la spesa così? Ti sentiresti a tuo agio? Ti mancherebbe il supermercato come è adesso? Le mie risposte sarebbero no, no e no, ma sono una donna senza fantasia e l’alternativa ideale proprio non mi viene in mente. Spero a te sì, caro cooperatore: lo faresti pure tu sempre tecnologico ma un po’ più caldo?

…sei un comunicatore?

VAI a Expo e goditi una giornata senza stress. GUARDA con calma tutti i dettagli che colpiscono la tua attenzione, fra il disinteresse della folla che corre verso le 4 ore di fila al padiglione giappo perché Me l’ha detto mia cugina, è imperdibile: vivrai un Expo parallelo e pacato. LEGGI claim, payoff, baseline da tutto il mondo. Ingenuità, creatività, brio, noia, banalità, arguzia: a partire dall’eterno I feel sLOVEnia, è una rassegna di copywriting notevole. TOCCA i materiali degli allestimenti, pensa alla fatica di azzeccare il giusto equilibrio tra economicità e resistenza per robe impressionanti che devono durare da maggio a ottobre. COPIA idee, soluzioni grafiche e tecniche, accostamenti arditi, modi nuovi di presentare le solite informazioni. EVITA i luoghi troppo affollati e con troppa fila: c’è tanta buona comunicazione anche nei padiglioni sfigati (quasi monastico ma d’effetto il montenegrino).

…sei italiano?

Se non vai, non parlarne. Non ha senso. Se invece vai, tieni a freno le aspettative e vedrai che ti troverai bene. Sei quello che gli han fatto l’Expo nel cortile di casa e spesso ci va solo per quello. Allora ricordatelo: sei a Milano da italiano e attorno a te c’è un sacco di gente venuta da lontanissimo apposta. Guardali, studiali, avvicinali se te la senti. Approfittane per mangiare il più strano e insolito possibile, puoi. Hint: il burger di coccordillo del ristorante dello Zimbabwe è buonino ma non esagerato, a detta di colleghi buongustai.

…sei straniero?

Expo ti piacerà perché c’è tanta bella Italia e c’è il mondo intero in Italia, evento raro. L’Italia è di norma così piena di se stessa che non c’è posto per altro, nemmeno per due paroline in inglese decente. Allora girala pure nella vetrina stranissima dell’Esposizione, tutte le regioni concentrate e incastrate l’una con l’altra, le eccellenze servite su un piatto d’argento, il granapadano notissimo accanto al Pannerone di Lodi (assaggiato in degustazione Slow Food: diffuso in tutta la Lombardia meridionale fino alla Prima Guerra mondiale, oggi lo fa UN SOLO caseificio: squisito). Però poi, caro visitatore straniero, se puoi varca le soglie di questa prigione dorata e goditi un po’ di Italia vera. Sarà meno internazionale, sarà egualmente provinciale (a Expo l’Italia è provincialissima e da cartolina), ma sarà molto più vera e sorprendente. Tutte le specialità assaggiate nella ressa dell’Expo sono solo la copia sbiadita della sbalorditiva biodiversità culinaria italiana. Lascia Rho e valla a scoprire.

…sei ambientalista?

Prima di tutto: respira. Va tutto bene. Tranqui. Va meglio? Ok. Possiamo parlarne. No, Expo non salverà il pianeta. Come dici? Ecco no, Expo non distruggerà il pianeta. Pari e patta? Forse. Di sicuro c’è a Expo meno verde di quanto non ci siano costruzioni (bellissime, le architetture sono la parte migliore di tutto) o soluzioni ultra tecnologiche. Ma di verde ce n’è. Specie nelle zone più defilate. Ci sono sentierini tra gli arbusti che collegano i vari spazi con tante e tante piante diverse, speso etichettate. Ci sono panchine nelle aiuole un po’ ovunque. Se il tempo è bello ci si gode l’aria aperta e ancora una volta perde senso la fila immensa al giappo (sì, mi pare proprio assurda ‘sta roba) per andare dentro, quando c’è così tanto da godere fuori. Ma allora il temone “Nutrire il pianeta”? L’ambizione di una esposizione universale placata malamente da qualche pianta da vivaio? Può darsi. Ma pensa, caro ambientalista, se il tema fosse stato futuristico. Ci avrebbero catapultati in un Blade runner di raggi laser e umanoidi inquietanti, e sarebbe piovuto sempre. La gran furbata è stata proprio questa. Da’ un tema vagamente ecologista e il risultato sarà comunque una fiera ipertecnologica e con copioso uso di cemento e asfalto, ma qualche aiuola qua e là anche solo per far scena la mettono. Godiamocela!

…sei un antropologo?

Il mondo è tuo, e a Expo lo cogli con un sol sguardo. Senti a me, ascolta le chiacchiere dei lavoratori dei vari padiglioni (e relativi ristoranti!) piazzandoti nelle viuzze laterali e retrostanti. Gironzolando senza meta con le mani sprofondate nelle tasche ho captato stralci di conversazioni in lingue natìe e lingue franche (inglese, ma pure italiano) tra cuochi e hostess, facchini e account d’agenzia, diplomatici e allestitori di tutte le latitudini e longitudini. Come nelle nostre città, il cardo e il decumano son bellissimi (a Bologna il decumano è via Rizzoli/Bassi, ma il cardo non è via Indipendenza, bensì via Galliera), ma è nei vicoli e nelle stradine limitrofe che ci si diverte e si godono le gioie della diversità.

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politiké

7 boiate di cui le donne si compiacciono e poi è un casino

Vi svelo un segreto. Le pubblicità di pannolini per bambine e bambini non sono pensate per bambine e bambini. La piccola Anna potrà fare gol e cercare avventure, e il piccolo Luca potrà farsi bello e cercare tenerezza. Potete (ancora) lasciarglielo fare. Non aspettatevi dalla pubblicità cambiamenti che siete voi a dover innescare. Va benissimo firmare anche petizioni, ma non perdiamo di vista l’obiettivo vero. Rendere impossibili pubblicità di questo tipo (quella di cui tutti parlate è qui) non già tramite censura bensì per totale scollamento dalla realtà, che renderebbe grottesche e non solo criticabili certe sceneggiature. E poiché le aziende e i pubblicitari sono distratti nonostante investano bei soldi a cercare di capire i cambiamenti in atto presso i loro pubblici, bisogna che ci impegniamo a rendere più evidente la nostra volontà, e non tanto il nostro sdegno. Perché –non raccontiamocela– alle bambine si dice ancora che sono belle e ai bambini che sono bravi. M’è allora venuto in mente l’elenco promesso a Elena durante uno scambio di tuit all’ultimo godibile Freelancecamp.

Credo ci sia una connessione tra quello che i pubblicitari ritengono sia patrimonio di credenze diffuso presso larghe fasce di pubblico/target e i miti che noi stesse perpetriamo non si sa bene nemmeno perché. Così, per sport. Per dire qualcosa di atteso e rassicurante, come quando si parla del tempo. È facile fare una battuta scontata che verrà certamente capita e approvata. Ma poi non stupiamoci che gli spot parlino a piccole principesse e miniature di calciatori. Ecco alcuni esempi di boiate che ci scappano quando ci vantiamo di presunte capacità o caratteristiche di nessun valore.

1! Multitasking sarà tua sorella

A fare tante cose assieme le si fa spesso tutte male. Giorni fa ho mandato una email urgente durante una riunione e sono stata redarguita da un project manager (che sospetto sia ingegnere gestionale ma non ho più il coraggio di chiederglielo) per via di una interrogativa indiretta sospesa nell’aria che ha reso quindi la email in questione meno efficace. Oramai è un dato: il mito del multitasking è un mito. Però pure considerando quando non lo era: ma sante ragazze, vi pare una capacità di cui compiacersi? Al massimo vi porta maggiore lavoro, e compiti dati da fare in parallelo ma di poco valore. Perché non è che qualcuno pensa che oltre a poter fare insieme tante attività, queste possano essere pure importanti, vero?

2! Ahi ahi ahi che dolor!

Resistiamo meglio al dolore? Ci lamentiamo meno quando abbiamo la febbre? Bah. Può darsi. Nelle mie microstatistiche personali sì, e di un bel po’. E allora? Basta basta basta farne una questione di genere se non siete sicure al cento per cento d’esser al di sopra di ogni sospetto (ossia di non esser in odore di perpetratrici di stereotipi di bassa lega). Per dire, io lo faccio sempre. In effetti potrei promettere una sorta di fioretto: smetto e vedo l’effetto che fa, ok?

3! Ulisse, vieni, sarò la tua sirena

Questo non è un punto, potrebbe essere un capitolo intero, una monografia, un’enciclopedia. Facciamo un certo effetto sugli uomini, pare. E Cosmo Vanity e altre pubblicazioni (chissà se esista ancora Top Girl, mi chiedo) ci raccontano da mille anni come aumentare questo potere rimbambente. E va bene così, intendiamoci. Ma bullarsene non ha senso. In campo sentimental-sessuale c’è ancora un rapporto tra i sessi talmente perverso, diseguale e “inefficiente” che ogni affermazione di successo deve tener conto del mercato malato della domanda e dell’offerta. Ragazze, ne riparliamo quando toccherà anche a noi guadagnarci la pagnotta e non basterà sbattere le ciglia.

4! La mamma è sempre la mamma

Ce n’è una sola, per carità, ma anche la pioggia è bagnata e se la tira molto meno. Vorrei sapere cosa aggiunge alle nostre vite di donne ribadire a ogni pie’ sospinto che abbiamo la predisposizione biologica al parto. Frequento madri felicemente snaturate (nel senso proprio che non rimarcano in continuazione che per natura sono diverse). Tutte hanno un rapporto invidiabile con i padri dei loro figli che –sorpresa!– fanno i padri e si vantano il giusto. Più le mamme fanno le smorfiose egocentriche più la gente scema farà irritanti complimenti ai padri che accompagnano i bambini a scuola o vanno a parlare con gli insegnanti, come se non fosse normale, naturale; e più ovviamente il soffitto di cristallo resterà impenetrabile al lavoro e nelle istituzioni, ma sarà stato un po’ anche colpa nostra, sappiamolo.

5! Distinguiamo i colori (e sappiamo abbinarli)

Ci sono tanti uomini che vedono in 16 bit come il Nintendo degli anni Novanta, è vero. Ma c’è un limite al fare le smorfiose che distinguono il glicine dal lilla: il limite del ridicolo. Ho lavorato tanti anni con graphic designer professionisti e vi assicuro che usare formule astruse come “carta da zucchero” oppure “guscio d’uovo” non fa di voi esperte di colori. Lo vedo dai commenti alle proposte creative che presento e valuto regolarmente con clienti o colleghi di altre funzioni: sui colori c’è la stessa abissale ignoranza che c’è sui caratteri tipografici, sull’uso delle immagini, sullo stile delle illustrazioni. Quindi, mie care, se non siamo Anna Turcato non parliamo di palette con nonchalance: potrebbero smascherarci facilmente.

6! Sappiamo fare lavatrice migliore del mondo

Quella delle faccende domestiche è forse la boiata più perniciosa di tutte. Non possiamo bullarci di un’attività che viene (giustamente) scansata da pletore di adolescenti sfaccendati che non riordinerebbero la loro stanza nemmeno per una paghetta tripla (dico spesso che intelligente come a 13 anni non sarò mai più: da allora è un lento ma inesorabile declino). Ci sarà un motivo se paghiamo chi ci fa le pulizie dieci euro l’ora in nero e una visita dal neurochirurgo 200 euro al minuto? Vi inebria far brillare l’argenteria? Bene! Vi invidio tantissimo: davvero! Ma zitte! Mute! Non gliene frega niente a nessuno. Se anche credete che fate meglio voi la lavatrice, fategliela fare lo stesso. Più spesso che potete! Se Parigi val bene una messa, la parità tra i sessi varrà ben un paio di mutandine di seta lavate a 90°.

7! Abbiamo un sesto senso che lèvati

Sarà. Sono contenta per voi, perché al solito io sono lessa e fessa e me ne tiro fuori. Non capisco le situazioni –specie tra le persone– quando ce le ho sotto il naso, figuriamoci se so prevederle. Ma ancora una volta mi sembra una capacità distintiva (o presunta tale) di poco valore. Può darsi che le donne in secoli di segregazione domestica abbiano sviluppato capacità di analisi dei dettagli e dei segnali non verbali, mentre i maschi eran fuori a guerreggiare. Ma se di quella capacità qualcosa è rimasto, usiamola e godiamone i frutti, senza strombazzarlo in giro. Quando si parte svantaggiati (io per dire sono femmina ex-extracomunitaria e saputella) bisogna avere grande consapevolezza delle armi utili per recuperare posizioni, e non disperdere le energie. Le parole costruiscono il pensiero (per Platone sono praticamente la stessa cosa!), e quello che diciamo –anche in occasioni informali e di relax– contribuisce all’opinione comune, anche se non ce ne accorgiamo. Dire una frase razzista fa di te un razzista. Reiterare luoghi comuni sulle donne porta i pubblicitari a reiterare il rosa e l’azzurro, perché li rende più certi di una sicura corretta interpretazione da parte dei loro pubblici. Cambiare tacendo (le boiate stereotipate) può essere più rivoluzionario di una petizione.

Ultima nota tecnica (forse già detta in giro per il web, non vogliatemene). C’era sicuramente almeno una pubblicità degli anni Novanta con un pannolino assorbente “più al centro per lei, più davanti per lui”, quindi ‘sto benedetto coso non è manco “rivoluzionario” né “unico” dal punto di vista del prodotto come sostiene lo spot. L’avranno capito anche in questo caso che le parole sono importanti?

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smancerie

Quante lagne: #backatwork

volpe

È strano non poter disporre del proprio corpo. È strano non poter comandare il proprio alluce come in Kill Bill: “big toe…”. Adesso la vorrei proprio apostrofare “Desna nogo! Perché non ti dai una mossa?”.

È proprio strano non poter disporre di tutto il proprio corpo. Siamo abituati a volerlo diverso: più bello, più tonico, meno peloso, gambe più snelle, pancia più piatta, pelle più abbronzata, rughe stirate. Oggi un uomo colla gonna ha definito “burqa di carne” la chirurgia estetica. Una definizione cruda di cui non condivido il tono paternalistico, ma BridgetJones ora è irriconoscibile e be’ un po’ di effetto lo fa.

Insomma è strano non disporre di un pezzo del tuo corpo e non poter fare quello che vuoi. La corsa, le ciaspole. Partire e sapere di poter arrivare. Un percorso ad anello, mamma che bello. Correre sul far della sera, quando quella torta nuziale di San Luca ti fa da faro. Pat pat pat pat e La lingua batte nelle orecchie.

Davvero, è strano e faticoso disporre del proprio corpo nella misura che decide lui: incompleta. Perché io poi non so bene come rattristarmi. Non riesco a precipitarci fino in fondo, alla tristezza. C’è qualche strana forza che sempre mi tira su. E mi fa parlare coi matti del bus pure mentre sto andando dal dottore. Perché io non sono la volpe. E non sono nemmeno l’orso, purtroppo. Io sono la stupida capra. Una capra zoppa.

capra

È strano non disporre del proprio corpo da un giorno all’altro. Che ti svegli una mattina e la forza e la sensibilità non sono le stesse e un motivo non c’è e se c’è nessuno lo saprà mai. O così dicono. E tu devi crederci perché non hai scelta. E invece scegliere è l’unica cosa che conta, l’unica in cui credi. Ho scelto io come e cosa sbagliare. Ho scelto di essere anche indeterminata pur di non essere determinata da altri, violenti.

La medicina per come è organizzata oggi non merita sempre la nostra fiducia. Ma tante volte non è che ci siano poi altre strade. In tutta questa confusione e fatica soprattutto mentale l’unico raggio di chiarore e chiarezza mi arriva dalle persone che ho la fortuna di conoscere. Che belli sono stati quelli e quelle che mi son venuti a trovare, che mi han chiamata persino contro la mia volontà, mi han trovato i numeri da comporre, mi han infilato cinni trilingue in casa, hanno portato ragù e polpettone mostrando scetticismo verso i maccheroncini di Campofilone sottili come capelli che invece col ragù sono sempre la morte sua, per fortuna. Mia zia Goga mi ha portato la marmellata di kiwi, per dire. Di kiwi!

È talmente strano non disporre per benino del corpo tuo tutto intero che non è mica facile abituarcisi. Biljana, è un po’ che non ci sentiamo, andiamo a camminare in montagna? Ma cert… oh no! Non sono programmata per stare male, nonostante un’adolescenza passata a letto pure nei giorni della gita scolastica a combattere la mia tonsillite cronica ma soprattutto la noia e l’insofferenza. Non sono arrabbiata e non sono nemmeno triste. Sono impreparata e smemorata. Ci vorrebbe una scuola per imparare ad accettare i propri limiti e la propria limitatezza. Ci vorrebbe la patente, ci vorrebbe.

cuore

 

Per i credits (e il senso) dei disegnini basta cliccarci sopra.

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smancerie

Pino, i tuoi veri fan ti salutano

Non ero una sua fan perché è una roba da appassionati e a me una passione non basta eccetera.
Non bisogna essere fan per capire la bellezza e la grandezza, e il legame dolceamaro con una città.
Sono (anche) di Bologna e abbiamo perso pochi anni fa Lucio Dalla: ci siamo capiti.
Nemmeno di Lucio Dalla ero fan, ma quando sento 4 marzo 1943 ho sempre i brividi, e La lingua batte ci fece una delle puntate più belle di sempre (fatevi un regalo e ascoltatela).

Quando muore qualcuno in tanti si lamentano dell’assalto ai social per dire la propria. Qualche volta diventa stucchevole, è vero.
In un attimo sembra quasi che tutti abbiano un aneddoto, che tutti l’abbiano amato, venerato, letto o ascoltato a seconda.
Ecco, quasi.
Fisiologicamente, ci sono i fan dell’ultima ora, quelli che salgono sul carro funebre, per così dire. Esistono, ma trovo sempe il modo per ignorarli.
Poi ci sono quelli per cui davvero se ne va con la persona un pezzo di sé e della propria storia. Sono queste persone a rendere non solo sopportabile ma unica e utile la mia tielle nei giorni in cui muore qualcuno.

Ieri ero a casa (sono spesso a casa in questi giorni, purtroppo). In tv qualche raro servizio delicato e di vero omaggio a Pino Daniele era affogato in altra robaccia, compresi dettagli clinici che per me non hanno alcun interesse. È morto e mi spiace; di che cardiopatia soffrisse voglio continuare a ignorarlo.

Insomma, su tv e media assibilabili sono abbastanza d’accordo con i contenuti (non con le virgole!) di questo pezzo uscito su Giornalettismo.
Per partecipare invece all’addio collettivo genuino mi taccio e mi godo tramite la mia tielle gli omaggi più belli e persino la migliore selezione di quel che vale la pena rivedere e riascoltare, anche da chi di norma non seguo ma che viene opportunamente segnalato.

Il rischio retorica in questi casi è sempre dietro l’angolo, ma il confine è spesso labile. Per dire, di norma un commento come quello che segue mi parrebbe esagerato, ma io l’ho trovato delicato e commosso (non conosco l’autore, è un RT di Iperbole):

C’è chi evidentemente non è del tutto fan, come me:

Ci sono i compagni di università che non vedi da anni ma che è così bello leggere:

La notizia viene data anche in altre lingue e altri alfabeti (purtoppo non parlo greco, ma si capisce, no?):

Ricordi privatissimi:

E ricordi pubblici…

…socio-politici:

La mia tielle è bella sempre, anche quando ci lascia qualcuno (niente autocitazioni a vuoto, e nemmeno tette):

Stamattina Vittorio si è svegliato così, e io ho pensato che sarebbe stato bello e struggente essere a Napoli adesso:

Insomma, non mi dà nessun fastidio leggervi:

E poi lo so che siete abbastanza forti da reggere anche questa:

Zbogom Pino, avevi dei fan fantastici.

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parole parole parole

Insonne per scelta

Cose che preferisco al dormire

Correre.
Mangiare chicchi d’uva.
Tutto ciò che di simpatico si fa a letto, tipo le parole crociate o Topolino quando stai male (ma solo se te li compra spontaneamente qualcuno che ami).
Cucinare.
Nuotare nell’acqua da fresca a freddina.
Salire sulla vetta di una montagna, con un percorso ad anello.
Scrivere a mano.
Partire, ma non fare i bagagli.
Tutto ciò che di bellissimo si fa a letto, tipo leggere libri belli con due cuscini dietro la schiena.
Bere tè.
Bere tisane, infusi, caldissimi.
Andare alle mostre belle e passare il dito sui prespaziati quando le spiegazioni sono particolarmente curate.
Scrivere a mano a qualcuno che non esiste ma invece sì, da 22 anni.
Bere birra: chissà perché i francobolli invece no.
Fare citazioni di nicchia ma pure popolari, e poi non spiegarle.
Ascoltare La lingua batte e ripromettermi di appuntarmi qualcosa citato nella puntata una volta rientrata dalla corsa e poi non farlo mai.
Essere indulgente con me stessa, più di un tempo.
Parlare a lungo con mia sorella.
Uscire con gli amici e a un certo punto della serata estraniarmi per guardarli “da fuori” e pensare Siete fantastici e poi non dirglielo mai.
Andare agli eventi, indossando il badge col mio nome.
Andare alle presentazioni da sola, sedendomi in prima fila e ascoltando tutto.
Internazionale.
Internazionale a Ferrara.
Le mura di Ferrara.
Il Po, persino.
San Luca da tutti gli angoli, e ancora ne scopro di inediti.
Rileggere qualcosa di scritto molto tempo prima e non trovarlo poi così male.
Andare in biblioteca.
Entrare in biblioteca senza idee e uscire con 3 libri e 32 denti di sorriso.
La Sentina.
Città Sant’Angelo e i suoi abitanti, che si chiamano angolani.
Il dialetto angolano, che non so parlare.
Il serbocroato, che so parlare ma non scrivere (bene).
Il precoce bilinguismo.
Biskupija.
Prendere il traghetto.
Prendere l’aereo.
Andare in bicicletta, a Bologna.
Ciaspolare, sull’Appennino.
Perdermi ma poi ritrovare il sentiero, sull’Appennino.
Raccontare di quando ci siamo persi sull’Appennino.
Dire “all’addiaccio”.
Dire “santi numi!”.
Fare complimenti a chi li merita.
Fare complimenti a chi merita incoraggiamento.
Andare al cinema, in Cineteca, a vedere film in lingua originale, coi sottotitoli.
Entrare in libreria e comprare esattamente quel libro per quella persona che festeggia qualcosa, avendoci bene pensato prima.
Azzeccare un regalo, specie se per mia sorella.
Andare all’opera, avendo (ri)letto più volte la trama.
Indossare le perle quando vado all’opera.
Fare colazione.
Stare sul balcone, immaginandolo terrazzo.
Andare al parco.
Mangiare qualcosa “col cucchiaio”.
Avere ragione.
Essere presa in giro quando ho torto.
Usare il mio bollitore.
I piccoli elettrodomestici.
Le banane.
Tutte le altre cose divertenti che si fanno a letto.
Più divertenti che dormire.

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mostovi

Eravamo 4 amici al Balkan

 

Ho imparato a camminare al Balkan. Un bar senza pretese ma con un giardino estivo sulla strada principale della città dove tutti e quattro siamo nati, “nello stesso ospedale” (chissà perché precisiamo spesso questo dettaglio, specie quando mi chiedono se uno dei miei due genitori sia italiano, o se mia sorella sia nata in Italia, circostanze entrambe non vere).
Il Balkan aveva delle sedie bianche in plastica finto vimini. I miei genitori e i loro amici le occupavano fino a tardi nelle calde sere d’estate, e c’ero io che non volevo andare a dormire mai, e che stavo buonissima perché sapevo che al primo capriccio avremmo preso la strada di casa e sarebbe così finito il divertimento.
Le sedie del Balkan erano stabili ma leggere. Almeno lo erano abbastanza da poterle afferrare per il telaio e trascinarne una in giro per la veranda a meno di un anno di età, rendendo meno traumatico il passaggio verso una posizione eretta stabile. Ho portato in giro per settimane una di quelle sedie, alternandola con la mano del più premuroso dei padri. Nelle estati successive ho continuato a godermi quelle piacevoli serate di chiacchiere e risa, finché è stato possibile.
Balkan nella mia memoria è ancora oggi prima di tutto un posto dell’anima. Solo in secondo ordine è la penisola che fa da polveriera all’Europa da secoli, e ogni tanto fatalmente esplode.
Mi stupisce e sconvolge che tanti amici amino i miei luoghi natale, le mie infinite ex patrie. Quasi tutti li ho conosciuti attraverso quel luogo di isolamento e solitudine e freddezza dei rapporti sociali che certuni chiamano “il mondo del web” come fosse un altro, che chissà con quale orbita gira attorno al Sole.
Con tutti loro –se esistesse ancora– mi siederei ai tavolini della veranda estiva del Balkan a condividere una Karlovačko e a scambiarci pareri fino a notte fonda.
Non essendo ciò possibile perché han fatto saltare in aria la polveriera negli anni Novanta del Novecento meno di un decennio dopo quei miei primi passi col supporto di una sedia, li saluto da queste pagine, e li ringrazio.

Aldo

Aldo è un uomo di confine. Iugoentusiasta con cognizione di causa, perché è sempre stato lì, a un tiro di schioppo (scusate…), prima durante e dopo la guerra. Per Aldo cenare in Slovenia non è più complicato che in tanti altri posti della sua regione, la più a est d’Italia, già in odor di Balcani.

Maresciallo Tito

Saša deve essere nato dalla parte sbagliata dell’Adriatico, non c’è altra spiegazione. Conosce ogni dettaglio della geografia, della storia, della musica e della gastronomia iugoconnessa. E sarà contento che lo chiami Saša, piccolo Aleksandar, ci scommetto.

Liza

La quota rosa di questa mia classifica predilige delle mie terre uno dei suoi prodotti migliori: lo sport, e nello specifico il basket. E come darle torto? Per capire qualcosa dello sport iugoslavo e molto delle guerre iugoslave consiglio sempre di guardare questo splendido documentario americano (segnalatomi da Vittorio, che ancora ringrazio per questo regalo).

Beppe

Un giurista torinese follemente innamorato di quel che c’è a est di Trst. Per me è un mistero. Ma un mistero piacevole che non voglio sondare. Gli piacciono i miei luoghi, la mia lingua. Così. Che bello è?

Frane

Francesco ha un incomprensibile profilo col lucchetto. Potete però leggere il suo libro. Per chi studia comunicazione è più utile questo testo di certi manuali general generici che sproloquiano di débrayage facendo esempi pescati sulla luna. Belgrado e Mostar sono testi (in senso semiotico) all’aria aperta, benissimo raccontati da una bella penna e da una bella persona.

Rodolfo

Quando sento che i giornalisti “di oggi” non hanno più voglia di consumare la suola delle scarpe sento ribollire il sangue nelle vene. Che cretinata. Rodolfo Toè consuma le sue suole sulle strade di Sarajevo, dove già fa un freddo cane.

Davide

Non solo studia i Balcani, ma ama parlarne e scriverne. Retuittatore entusiasta (vi ho avvisati), ma solo di quel che vale la pena leggere.

Ovviamente queste sviolinate valgano come FollowFriday. Perché la scorsa settimana Simone mi ha fatto questo imbarazzante scherzetto.

Nessuno può meritare una descrizione tanto impegnativa, ma questi GenteDaSeguireSuggeritaOgniVenerdì in forma più lunga e ragionata dei 140 caratteri canonici di PratoSfera mi son piaciuti molto. E allora ho ripescato questo post in bozza da molto e ve lo vendo come #FF. Furbissima, eh?

Ma io –poi– ho davvero l’accento bolognese?

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