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A San Nicola il Sole è alto

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Nella lista dei migliori film della mia rivista preferita c’è il film girato nella mia città e scrivo che è ancora San Nicola che è la festa della mia famiglia. E detta così sembrerebbe quasi che ci sia da festeggiare invece sono triste anche se questo annus horribilis volge al termine e forse ci darà un po’ di tregua. Sole alto è un film bello anche se non me lo ricordo tanto bene e le recensioni andrebbero scritte subito dopo aver visto il film. Per dire avrebbe molto più senso scrivere di È solo la fine del mondo che l’ho visto da poco anche se non è bello come Mommy e in qualche snap ho detto pure che alla fine non vuoi tanto bene a nessuno dei personaggi, mentre ero in bici. Ma sono davvero triste ed è San Nicola e i nonni non ci sono più e penso che vorrei piangere fino a Capodanno quando viene Nonno Gelo. Che poi sarebbe San Nicola, e alla fine tutto si tiene. Non capirete mai Sole alto, ma vedetelo lo stesso.

Dalibor Matanić ha girato questo film a Knin ma non gli ho chiesto perché. Uscita dalla Sala estense dove l’avevo visto in anteprima italiana al Festival di Internazionale a Ferrara gli ho stretto la mano, fatto i complimenti e detto che sono di Knin. Che è vero e falso insieme. Perché è come dire Sono di Fantàsia, Sono di Babilonia, Sono di Mordor. Lui ha detto qualcosa come Ah, carino! a riprova del fatto che non è quasi mai una buona idea approfondire con gli artisti. (Questa memoria è un po’ ingenerosa, perché mi lascio influenzare da mio papà che ha spesso dei giudizi sommari che travolgono ogni mio tentativo di pensiero autonomo.)

Non gliel’ho chiesto, ma forse il film è stato girato a Knin perché costava poco. O forse perché c’era natura selvaggia abbastanza e desolazione abbastanza e villaggi semiabbandonati abbastanza per girare questo film che sono tre ma che è sempre lo stesso e infatti gli attori sono sempre loro due anche se hanno nomi diversi e capigliature diverse. Un film sulla guerra, chiaro, perché un film di un croato molto zagabrese girato a Knin che vince premi internazionali con attrice serba di che cosa vuoi che parli, Che cliché signora mia, questi balcanici sempre a parlare delle loro guerre quando la gente muore ad Aleppo. Non capirete mai i Balcani, ma andateci lo stesso.

Ho sempre pensato che se avessi scritto un libro avrebbe parlato della guerra. In un modo o nell’altro. Anche se mi censuro un sacco di volte. Perché penso quasi sempre che a voi giustamente non ve ne frega e v’annoia. Quando sono triste piango. Ma non vi cerco perché penso che vi stufo. L’ho pensato per vent’anni, da che è finita la guerra, ma oggi è Sveti Nikola ed è la festa della mia famiglia e un bellissimo film è stato girato nei dintorni scenograficissimi della mia città e se anche vi stufate vi scrivo quanto è stato doloroso vederlo e quanto la guerra faccia male anche se è finita da ventuno anni e qualche mese. Era iniziata quattro lunghi anni prima, che è quando è ambientato il primo triste episodio. Loro sono giovani e vanno al fiume. Lei è bellissima e lui lo sa. Lei è bellissima e lui non ci crede quasi che una bella così gli dia retta. Lui suona la tromba, ma mentre spirano forte venti di guerra non è il caso di mettersi a suonare uno strumento tanto marziale. Non capirete mai Jelena e Ivan, ma andateli a vedere lo stesso.

Andarsene è stato doloroso. Ne ho ricordi vividi e angosciosi. Faceva caldo come fa sempre caldo nei giorni attorno al mio compleanno, e il Sole era alto mentre passavamo da un posto di blocco all’altro. Andarsene è stato doloroso, ma mai come ritornare. Nel secondo episodio c’è un ritorno. Ed è tutto sgarrupato e tutto triste e faticoso. Ricordo i colpi di proiettile in tutti i muri e tutto che mi sembrava minuscolo perché ero andata via che ero un metro e quaranta sì e no. E nel secondo episodio c’è una scena di sesso intensa e piuttosto esplicita che è sempre un poco strano vedere una scena di sesso al cinema (anche se la Sala estense non è proprio un cinema) seduta accanto ai tuoi genitori. E la scena di sesso esplicita finisce con un To je to che è poco traducibile e che mi chiedo come abbiano devastato come al solito nel doppiaggio che come al solito chi gli piace il doppiaggio e i doppiatori italiani più bravi del mondo verrà defenestrato. Non capirete mai Nataša e Ante anche se fate del sesso esplicito, ma andateli a vedere lo stesso.

Non sono una grande fan dei finali. Un brutto finale non mi rovinerà un film amatissimo. E viceversa un buon finale non risolleverà le sorti di una pellicola già condannata da un giudizio sommario di impronta paterna. Non me lo ricordo bene come finisce Sole alto. Meglio così. Così non faccio spoiler e così Ines non mi sgrida. Del terzo episodio mi piace che i protagonisti siano miei coetanei più o meno e che siano smarriti e incazzati anche se pure loro si mordono la lingua perché tanto non serve a niente. C’è una festa al lago o al fiume che devono essere uno dei miei laghi o dei miei fiumi (i miei fiumi, come Ungaretti). C’è il tentativo di sottrarsi all’impegno perché forse è più facile. Per sopravvivere all’assurdo, al passato che devi archiviare ma mica è una pratica, e comunque ti sei scordato l’ordine alfabetico per farlo. E poi quale alfabeto vale, che sono due e manco nello stesso ordine? Lei è serba e lui è croato, o viceversa. Ma vi siete mica mai innamorati pensando che era vietato, voi? Non capirete mai Marija e Luka, ma andateli a vedere lo stesso.

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téchne

Tutti al cinema! 3 pseudorecensioni senza sottotitoli

Sto vedendo tanti bei film in sala e ne sono felice. Essendo una frantumascatole fissata con la v.o. sottotitolata, vedere un film italiano al cinema è liberatorio perché posso andare in qualunque sala lo facciano senza controllare che non sia orrendamente doppiato come il 99% dei film stranieri. (Sono seria: il primo che dice che i doppiatori italiani sono i migliori della galassia lo defenèstro.)

Per questo, avendo visto tre film italiani di fila che mi hanno entusiasmato, ho pensato fosse un ottimo segnale per un cinema che ha una specie di dovere morale d’esser grande, e ho pure pensato bene di farvene recensioni totalmente destrutturate e inutili se non ne avete lette di ordinate e pregnanti.

I tre film non potrebbero essere più diversi tra loro.

Perfetti sconosciuti e non dite “quello dei cellulari”

Poi lo potete chiamare come vi pare, eh, ma davvero la storia dei telefoni è uno spunto (fertile, utile e attuale, ci mancherebbe) per parlare di rapporti, di amicizia, matrimonio, genitori, convivenze e nuovi amori. Lo smartphone e l’esser costantemente connessi e chini sul suo schermo sono pretesti, non feticci di una denuncia antitecnologica.

E tra le storielle e storiacce di corna vere e finte, di tradimenti e incroci di talamo, spuntano minoritari ─ma secondo me molto azzeccati─ episodi meno pruriginosi ma ugualmente “scomodi”. Quali sono i pensieri e le azioni su cui taciamo? Non è solo il filarino collo sconosciuto di Facebook. Non diciamo dei preservativi dati alla figlia adolescente; dell’ospizio contattato pensando alla suocera invadente; non diciamo che abbiamo messo in vendita la licenza del tassì vergognandoci dell’ennesimo fallimento dopo i beagle, le sigarette elettroniche… (i dettagli: quanto sono importanti i dettagli?).

Se le questioni vere o presunte di letto ci fanno ridere e magari pensare a una cancellazione di ogni cronologia del telefono all’uscita dal cinema, sono stati questi altri argomenti quotidiani a farmi riflettere e alla fine a farmi amare questo piccolo film che non ha per niente il sapore del cinema indipendente intelletualoide ma che si presenta per quel che è: un lavoro ben fatto, ben scritto (la scrittura: quanto è importante la scrittura?) e quasi sempre ben interpretato.

Due appunti da frantumascatole: alla Smutnjak un paio di battute gliele avrei fatte rigirare; basta basta basta con i titoli di testa/coda che giocano su due corpi diversi della stessa font (tipo light + bold).

Fuocoammare che vuol dire quel che dice

Mi credevo chissà che significato dietro al titolo, invece si riferisce letteralmente al fuoco che si specchia nel mare, quindi “fuoco al/sul mare”. Come al solito non capisco una fava, ma mi consolo perché una volta una compagna di studi mi disse Massì, dai: quel film di Fellini col titolo in una lingua straniera… ed era Amarcord. Insomma, c’è sempre chi fa peggio.

Amo i documentari che riescono a essere belli e utili senza voce off, senza didascalie con simulazione di typewriting, senza infografiche. Fuocoammare è quanto di più lontano dallo “spiegone” si possa immaginare, eppure si fa anche testimonianza.

È il racconto poetico di un frammento di realtà che non si spaccia per verità assoluta. Il regista racconta a Radiotre che candiderebbe i lampedusani al Nobel per la Pace, ma li dipinge senza farne agiografia alcuna, indugiando anzi su dettagli di divertente umanità come il risucchio di una pasta lunga col sugo di pesce che a me balcanica impenitente ha suscitato riso e una punta di invidia. (Sono una frana ad arrotolare gli spaghetti, deve essere una dote genetica mancante cui decenni di vita in Italia non possono sopperire.)

Ma Jeeg Robot il cartone ve lo ricordavate?

“Parliamo di robe serie: avete visto Jeeg Robot?” ho chiesto ieri a pranzo, ed ero seria davvero. Il cinema italiano qua ha fatto “clac” e s’è inventato qualcosa che non c’era e il primo che dice Hanno copiato gli americani fa la fine di quello amante dei doppiatori. A me questo pastiche cinematografico ha divertito come una ragazzina. Fa ridere, fa ribrezzo, fa ogni tanto tenerezza e mette pure un po’ di malinconia.

Come non amare un film in cui contro il cattivone magnifico viene scagliata la tazza di un water dello stadio Olimpico? In cui lo stadio Olimpico viene opportunamente classificato più in alto per rilevanza del Parlamento? In cui la strategia della tensione edizione 2016 è la macchietta consapevole di quella di anni passati? In cui Buona Domenica viene confusa continuamente ora con il Grande Fratello ora con Xfactor? E via così.

Esci dal cinema che pensi che Gotham City è sempre stata Torbellamonaca e non ce ne eravamo mai accorti.

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