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Venti e trenta: i sogni di una generazione infranti a Genova e la fine della Iugoslavia

Non sono a mio agio con gli anniversari, mi mettono ansia da prestazione. Nei mesi precedenti ci penso e mi aspetto un avvicinamento dolce, a tappe calme e lente, fatto di approfondimenti e articoli arguti, di condivisione, ricordi. Invece poi l’anniversario arriva brutale e mi coglie impreparata e incredula.

Sono passati trenta anni dall’inizio della guerra in Iugoslavia e venti anni dal G8 di Genova, due avvenimenti separati nella testa di quasi tutti, e in realtà anche nella mia, ma che mi hanno segnata lo stesso e che si accavallano talvolta in ricordi dolorosi e pensierosi, e in qualche modo chiedono di uscire e essere elaborati.

Non sono stata a Genova e so perché, a livello ⎯diciamo così⎯ logistico; ero altrove a fare altro e ne ero felice. Ma non mi spiego tutt’ora perché ne sapessi così poco in un periodo della mia vita in cui mi interessavo alla politica molto più di adesso, pur con tutte le ingenuità dei quasi venti anni. Il mio fidanzato dell’epoca, che poi è stato mio compagno di vita per tanto tanto tempo, andò e tornò da Genova in treno, dalla costa adriatica dove abitavamo, facendosi il viaggio di ritorno nel bagno perché ogni altro posto su tutti i vagoni era strapieno: avevano ridotto a un terzo i treni per il rientro dei manifestanti, tanto ribadire i rapporti di forza e controllo, semmai ce ne fosse stato bisogno. Militava nella sezione giovanile di un partito di sinistra, io no ma parlavamo molto di politica come di tante altre cose, non ricordo e non riesco a ricostruire perché di Genova prima di Genova avessimo parlato così poco. Io avevo la maturità, lui era già al primo anno di università ma ci sentivamo spesso e uscivamo nel finesettimana, chissà come quell’appuntamento a cui lui avrebbe partecipato sfuggì alle nostre conversazioni e alla mia curiosità. Leggevo il giornale tutti i giorni, sapevo di Seattle, mi sentivo abbastanza informata, eppure non avevo colto la portata dell’evento. Ero “in target” come potrei dire con il gergo che uso oggi nel mio lavoro, eppure non mi aveva raggiunto il messaggio. C’è poco da stupirsi se il G8 di Genova a molti italiani dica poco ancora oggi. Io almeno ho recuperato dopo, ma loro? 

Non sono a mio agio con gli anniversari, servono principalmente a ricordare quanto sia ancora profondamente ingiusto il mondo in cui viviamo, esattamente come allora. Quell’estate però non ci stavo pensando più di tanto e approfittavo di ogni occasione per non pensare ai dieci anni dall’inizio della “mia” guerra civile. Ero stata invitata a una summer school della Scuola Normale Superiore di Pisa, a Colle Val d’Elsa, e io e il mio futuro marito ci salutammo partendo io spensierata per la Toscana e lui militante e tranquillo per la Liguria, con la sua lunga esperienza di cortei e manifestazioni. A Colle Val d’Elsa incontrai un’amica per la vita, e a breve ci rivedremo dopo la pausa più lunga di sempre (grazie maladetto covid) per festeggiare i nostri venti anni di amicizia. Ricordo che mi consolava e mi tranquillizzava mentre guardavo allucinata e preoccupata le immagini del telegiornale di quei giorni, grondante dell’acqua della piscina dove facevamo la pausa pranzo tra le lezioni del mattino e quelle del pomeriggio. (Ho sempre fatto il bagno anche dopo mangiato, autorizzata dai miei genitori balcanici: quel mito lì è una roba solo italiana, spero non lo stiate scoprendo ora.)

Provai a chiamare il mio fidanzato più volte, a scrivergli sms che chiedevano solo se stesse bene. Era partito deliberatamente senza cellulare, tanto era con i compagni di partito e non voleva correre il rischio di perderlo, e comunque ricaricarlo era un casino. Con le morbose abitudini telefoniche che abbiamo oggi quella scelta suona abbastanza assurda ma i telefoni di allora effettivamente non navigavano, non filmavano, né facevano foto. Mi arrivò credo un laconico messaggio mentre già rientrava, del tipo “Sto bene ti chiamo presto”. Lo sgridai eccessivamente al suo ritorno, con l’incoscienza dell’età mi ero sì preoccupata ma in fondo sentivo che stava bene e che sarebbe tornato sano e salvo. Persino quando avevo visto il corpo di un mio quasi coetaneo per terra senza vita ero rimasta esterrefatta ma non avevo perso lucidità. Quando finalmente ci siamo sentiti gli chiesi “Ma che casino è stato?” e lui caustico come sempre “Eh, hanno fatto anche un morto”.

Nei giorni successivi recuperai quello che avevo seguito poco e male dal tempo sospeso di Colle Val d’Elsa, e mi ricostruii una mappa stranissima e incompleta. Un amico più grande di quei giorni aveva altre conoscenze a Genova dai centri sociali spagnoli, mi diede un altro tassello che sentii forse lontano o comunque combaciare poco con tutto il resto. I giornali del dopo Carlo diventarono inutili alla comprensione, subito virati alla morbosa ricostruzione e alle frasi feticcio Sei stato tu col tuo sasso e altri latrati grotteschi. Diventò sempre più netta la separazione tra le frammentate testimonianze dirette e il racconto mediatico.
“Siamo rimasti sempre nel corteo, non ci si poteva allontanare nemmeno per pisciare, perché appena entravi nei vicoli rischiavi di prendere un sacco di botte”, è stato il primo racconto dal vivo del fidanzato. Credo sia stata quella strana combinazione di Summer School e caldo estivo, media italiani sistemicamente inadatti e testimonianze dirette così dolorose da suonare irreali a farmi vivere quella esperienza indiretta in modo confuso e lontano dalla mia sensibilità civica, il tutto nella calda estate della maturità e delle scelte per il futuro: quale università, quale facoltà, quale città. E la pietra tombale la misero i fatti matti dell’11 settembre, io ero di nuovo in Toscana, e di Genova si scordarono più o meno tutti quelli che non c’erano stati.

Non sono a mio agio con gli anniversari, si intrecciano gli uni con gli altri e alla fine tutto si appiattisce. Sono passati trenta anni dalla dissoluzione della Iugoslavia, lo stato federale in cui sono nata e cresciuta, dove ho mosso i primi passi e detto le prime parole, in una lingua col trattino che oggi viene chiamata in tanti modi. Se li contassi tutti, parlerei 7-8 lingue. Ho scritto molte parole inutili sulla violenta dissoluzione del mio paese, e ogni volta è stato devastante. Capita a volte che non ci pensi per qualche giorno e sono le volte che poi all’improvviso un dettaglio o un ricordo mi fanno singhiozzare con più disperazione.
Perché piango? Per il dispiacere inconsolabile della Patria perduta, certo, ma una piccola parte di quel dolore sta nella solitudine di viverlo in un paese dove non mi è riconosciuto né è capito, un paese confinante cui quella guerra è stata raccontata malissimo, confondendo i piani, mischiando vittime e carnefici, additando cause del tutto secondarie e rispettando pochissimo il nostro dolore e la verità.
È sorprendente quanto gli italiani sappiano poco e male delle guerre che hanno dilaniato il paese che non esiste più tranne che nel mio cuore. In buona fede nella quasi totalità delle volte, ci mancherebbe, e con meritevoli eccezioni, ma è notevole comunque.

Non sono a mio agio con gli anniversari, raramente i gap di conoscenza vengono recuperati, però qualche bel contributo ogni tanto alleggerisce un poco l’anima.
Ieri ho ascoltato con gli occhi lucidi la storia incredibile di Yutel, la televisione federale i cui giornalisti lottarono strenuamente per la pace e contro la follia, raccontata con garbo e sapienza dalle persone meravigliose che hanno inventato Kiosk, una edicola volante che tutti gli italiani europei dovrebbero ascoltare.
E questo pezzo del Mulino mi ha un po’ sbattuto in faccia alcuni miei stessi pregiudizi, e mi ha fatto fare un po’ più pace con il mio est che è diverso e non per questo inferiore. Grazie all’amica di Twitter che me l’ha segnalato.

Non sono a mio agio con gli anniversari, vorrei al contempo leggere tutto e non leggere niente e aspettare che passi la tempesta.
Sono settimane che parlo con il mio nuovo compagno di Genova e di quanto sta uscendo, in particolare di Limoni, il podcast di Internazionale che la mia tielle sembra apprezzare molto. Lui, che a Genova c’è stato dopo un anno di preparazione come dovrebbe essere sempre e come io non ho fatto, lo trova per ora insufficiente e superficiale. Per chi non c’era, per chi era troppo giovane, for dummies. Che era esattamente il punto dell’editoriale del direttore De Mauro in cui ha presentato il progetto. Probabilmente funziona per quel che deve, e tenta di parlare a chi non c’era o come me ricorda poco e male e poi magari non ha recuperato granché. De Mauro dice nella prima puntata che i primi anni dopo Genova bastava il toponimo e tutti capivano a cosa ci si riferisse. Da qualche anno il potere di quel nome di città ha iniziato a scemare. Quindi bene che Internazionale, la mia rivista del cuore da molti anni di felice abbonata, e che per di più ha avuto da quel momento una svolta verso il suo successo editoriale, abbia costruito una narrazione con intenti anche divulgativi, partendo da una sua giornalista che c’era, anche se un po’ quasi per caso, con i problemi che questo porta a chi c’era venuto da un percorso diverso. E ci sta anche che non parli a tutti, probabilmente nemmeno a me che non c’ero ma avrei potuto e forse dovuto esserci. Perché appunto è un progetto editoriale, con tutti i limiti e difetti di un prodotto, che non è ⎯e nemmeno vuole essere⎯ un’opera d’arte. La mia voglia di recuperare questi venti anni è troppo grande per uno snack spezzafame. E forse dopo anni di podcast mi sono un po’ stufata di certi vezzi del mezzo come “Riprendo il treno” e giù rumori di stazione, ma so bene che è un problema mio.

Come è un problema mio il mio disagio con gli anniversari, che ti fanno tirare fuori tuo malgrado quello che sarebbe comodo lasciare stipato dentro, se solo non facesse così male anche dopo venti, trenta anni.
Ci sono verità che vanno oltre il sentire comune, che non si imporranno mai sulla narrazione mainstream, se non fra molto tempo, quando nessuno di noi sarà più a questo mondo.
Io però sono felice di aver raccolto negli anni qualche lacerto di quelle verità di nicchia e di non essere, almeno non sempre, tra gli ignavi e gli indifferenti. Sento un moto di gratitudine verso le persone che ho conosciuto e che mi hanno raccontato il loro G8. Vale per il mio fidanzato di allora e per il mio compagno di oggi. Per l’amico bolognese che mi ha raccontato la storia dei limoni contro i lacrimogeni, anche tra qualche amara risata, e che mi ha permesso così di capire al volo il titolo del podcast. Sono contenta di aver parlato qualche settimana fa con due amici del Freelancecamp con cui non era mai saltato fuori questo argomento, ne sono stata onorata.

Non sono a mio agio con gli anniversari, ma tanto vanno e vengono anche senza il nostro consenso. Tanto varrebbe approfittarne per accoglierli, parlarne con calma e ragionando assieme. Se solo non facesse così male, anche dopo venti o trenta anni.

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Cosa non ho ancora imparato dalla guerra sulla pandemia

Tira vento, forte, e sono inquieta. Non per il vento, non lo so ben spiegare. È per qualcosa che arriva da lontano.

Di Italia ‘90 non ho alcun ricordo. Eppure non ero poi così piccola. Il mio amico e coetaneo Gianluca, la persona che conosco direttamente con la maggiore cultura sportiva dopo mio padre, credo ricordi quei mondiali minuto per minuto. Avevamo 8 anni ma le nostre estati erano diverse. Io ero nel mio altrove, nel mio mondo parallelo. Era l’ultima lunga estate che trascorrevo in Iugoslavia ma non lo sapevo. Quella vita a metà, che seguiva il ritmo del campionato di pallamano e della scuola, incideva sulla mia percezione e costruzione personale della realtà. Così i mondiali in Italia non esistevano perché io giocavo fuori nel quartiere tutto il giorno, e altro non mi interessava. Immagino che mio papà qualche partita di Italia ’90 l’avrà vista, ma non me lo ricordo. Chissà perché invece ho vivissimi ricordi dei match di Monica Seleš e Martina Navratilova. Chissà.
Barcellona ‘92 sono Olimpiadi che ricordo bene, perché la nostra vita a metà era finita, eravamo intrappolati in Italia, o meglio in tutto il resto del mondo che non fosse la Iugoslavia con le frontiere chiuse e le ferite aperte, al galoppo verso l’orrendo prefisso di “ex”. Tutto nella mia vita lo conto tra prima e dopo il 1991, anno in cui è iniziata la guerra, e tra prima e dopo il 1995, anno in cui la guerra non è finita. Anche i ricordi legati allo sport.

*

Ora è buio e freddo fuori, e sono inquieta. Non per il freddo, quello non lo sento mai davvero, non me lo so ben spiegare. È per qualcosa che arriva da lontano.

La mia doppia vita raddoppiava le bizzarre interpretazioni della realtà tipiche dei bambini, e non solo (i primi tempi in Italia mia mamma dava per scontato che Roma dovesse essere in Romagna). Mi chiedevo perché ci fossero Superman e i Puffi in Iugoslavia ma non Fantozzi, che amavo e non capivo come tanti bambini, e non solo.
E poi erano gli anni ‘80, c’era la musica più assurda di sempre. In quelle estati sempre fuori, nella mia piccola città o al mare quando ci spostavamo “in rivijera”, non avevo bene idea di quanto vecchie o nuove fossero le canzoni onnpresenti. Era per me un blob musicale che nessuno mi aiutava a decodificare, parlando i miei poco con me dell’ottima musica che avevano ascoltato negli anni ‘70. Del resto, come potevano pensare che non ci sarebbe stato il tempo per una educazione musicale come si deve? Per quel che ne sapevo io all’epoca, Marina Marina Marina (ti voglio al più presto sposar, 1959) poteva essere coeva de La Lambada, che nel 1989 era appena uscita e che Nina sapeva ballare e ce lo insegnava. (Ammiravo con una punta di invidia la mia amica Nina che avendo un anno meno di me sapeva sempre fare tutto. Le volevo molto bene.) Quel poco che so del rock iugoslavo l’ho scoperto molti anni dopo, facevo già l’università. Scrissi una tesina di semiotica dei linguaggi musicali sui Bijelo Dugme sull’onda dell’entusiasmo di quella tardiva scoperta. Non mi era mai venuto in mente negli anni liceali di chiedere ai miei Ma c’è della musica iugoslava bella? perché tutto quello che aveva a che fare con la sponda opposta dell’Adriatico (vivevamo sulla Riviera delle Palme allora e qualche volta mi mi pareva quasi di vederla, la sponda “originale”) provocava in tutti noi un dolore quasi fisico, e leggermente diverso per ciascuno, come se il dolore avesse un colore. Se tu soffri magenta non puoi davvero capire chi soffre corallo, anche se somigliano. I Bijelo Dugme hanno scritto pezzi giganteschi e fatto dell’ottima musica, prima che il paese che li aveva incubati si dissolvesse, e molto prima che il loro giovanissimo bassista e fondatore diventasse Goran Bregović. Ma nel 1990 non conoscevo i Bijelo Dugme. Avevo 8 anni e ascoltavo Tajči cantare Hajde da ludujemo ove noći, Stanotte andiamo a far follie, un’esplosione rosa shocking e massimo disimpegno.
E poi c’era Massimo. Che non era nulla di che e non avrebbe somigliato a nulla che io avrei poi ascoltato nei decenni a venire, ma che per strani giri del destino è un pezzo importante delle mie dolorose memorie. Scommetto che i giornali di gossip dell’epoca faticavano a ricordarsi di scrivere Massimo con due s (per @gluca: Sì nella SFRJ avevamo anche i giornali di gossip…). Ricordo che mia mamma sosteneva avesse la mamma italiana, questo Massimo. Ricordo di aver ascoltato quella cassetta a Knin, a casa, assieme alle mie adorate fiabe sonore che ancora so a memoria, specie Palčica, Pollicina, che era così lunga da occupare sia il lato A sia il lato B. Potrei sbagliarmi ma credo fosse stata mia zia Goga a comprare quella cassetta, quella Muzika za tebe, musica per te.

*

È ancora buio fuori, dentro è caldo e tranquillo, ma sono comunque inquieta. Non ho paura del buio, ma di qualcosa che arriva da lontano sì.

Non mi spiego bene perché quelle cassette arrivarono con noi in Italia nel nostro ultimo rocambolesco viaggio. Siamo partiti in gran fretta (siamo fuggiti, sarebbe più corretto dire). Ricordo il mio costume intero rosso, usato come canotta. Dei pantaloncini arancioni sopra. Ricordo i ricci di Ines. Ricordo che ci hanno fermato, le tute militari, le mitragliatrici. Devo aver percepito lo stress dei miei genitori, rivivo dei flash come al cinema. Vedo il profilo di mia mamma e oltre, quella soldataglia. Infine quella domanda assurda Perché non indossate le cinture? Col senno di poi avrei dovuto gridare Santiddio sono appena iniziati gli anni ‘90, nessuno porta ancora le cinture! Ci fecero la multa e ripartimmo. Con un borsone di canotte e costumi da bagno. E una scatola di musicassette che chissà se avevo infilato di nascosto nella vecchia Talbot o se avevo frignato per portarla con me e mi avevano assecondato perché c’erano questioni più importanti a cui badare, tipo salvare la pelle. Alla fine l’ho tirata fuori diversi mesi, forse persino anni dopo, la cassetta di Massimo, dovevo essermela scordata lì per lì. Eravamo tornati in Italia (fuggiti) in piena estate, il giorno dopo avevano chiuso le frontiere, come a dire Okay, lasciateci impazzire con comodo e massacrarci a vicenda per qualche anno eh, do not disturb. Siamo andati al mare sulla sponda sbagliata dell’Adriatico quell’anno, come del resto avremmo fatto per molti anni a seguire. Impegnata a nascondere il mio smarrimento sotto la sabbia del litorale abruzzese, mi ero scordata di Massimo e fui sorpresa mesi dopo di riascoltare la mia prima lingua parlare d’amore e altre sciocchezze. In casa si parlava ormai quasi sempre solo in italiano, ufficialmente per aiutare mia mamma alle prese con la sua seconda laurea, in realtà perché anche parlare faceva male. Ascoltavo quella cassetta anche col walkman durante le gite. Qualche compagno mi chiedeva Che ascolti? Io lo dicevo, posavo le cuffie qualche secondo sulle loro orecchie Che buffo -dicevano- sembra inglese. A volte mi chiedevano di più, mi domandavano come fossero i posti dove avevo vissuto o perché ci fosse la guerra e io avrei voluto dire di più ma non riuscivo. Faceva male e non mi sentivo in diritto di soffrire perché eravamo andati via (fuggiti) e andavamo ancora al mare e io andavo a scuola e alle gite. E non capivo chi combatteva chi e per cosa. Non chiedevo per paura di fare domande stupide ma più di tutto temevo le risposte. I miei genitori erano annichiliti, sgomenti, increduli. Eppure sono riusciti a farci proseguire una infanzia bella e piena d’amore. La parvenza di vita normale rendeva ancora più doloroso il pensiero che si affacciava repentino e crudele: il tuo paese si sta autodistruggendo e tu stai crescendo in un altrove dove sei prigioniera anche se non sembra. Erano pensieri molto spaventosi per una bambina, lo sarebbero per chiunque. Qualche mese fa mia mamma mi ha chiesto -intendendola come un’iperbole- Allora tutto il popolo sarebbe dovuto andare in terapia dopo, venti milioni di persone! ma io le ho risposto, seria, Sì, proprio così. Era straniante con questo stato d’animo pesante ascoltare il pop sdolcinato di Massimo che sembrava arrivare da un altro secolo, non da appena pochi mesi prima. Un po’ come ora ci appaiono lontane le settimane in cui potevamo ancora uscire.

Massimo scriveva e cantava

La tua piccola cameretta
come una scatola azzurra
fuori una notte fredda 
senza luna

Non so se è senza luna la notte fuori, ma ora piove, e sono inquieta. I grandi sconvolgimenti tirano fuori qualcosa che viene da lontano.

È andato tutto male, dopo la guerra. Il dopoguerra è stato peggio della guerra stessa. Che è stata orribile e nefasta, ma perlomeno ha avuto una durata circoscrivibile, anche emotivamente. I grotteschi accordi di Dayton hanno chiuso la fase bellica e aperto un dopo che non si è mai chiuso, e quel veleno si è diluito come nei prodotti omeopatici, solo che è ancora attivo. Dopo la guerra è andato tutto male perché i buoni che già avevano perso la guerra hanno continuato a pagare il prezzo più alto. Hanno faticato a ricostruire le loro case o a farvi ritorno, a far studiare i figli o evitare che migrassero, a fare una vita se non migliore almeno non peggiore di prima. I cattivi, che già avevano vinto la loro stupida sporca guerra, hanno continuato in varie forme a governare i nuovi paesi con sospetta affinità e malcelata sintonia.
La gran parte delle persone che conoscevo ha perso la guerra. Ne è uscita impoverita, espatriata, disillusa, scoraggiata, traumatizzata senza saperlo e senza potersene occupare. Non c’è stato tempo e modo di piangere la patria perduta, per divieto dei cattivi vittoriosi o per autocensura di noi che siamo stati alla finestra a guardare, impotenti e sgomenti. Le persone normali che frequentavo, le persone buone, hanno perso la guerra. Un’enorme massa di sommersi, anche quando avevano l’apparenza di salvati.
È di questo che ho paura oggi.

*

Adesso è sereno fuori, anche se è ancora buio. La notte è quieta, io sono inquieta. Ma sono anche felice.

Accanto a me dorme mia figlia Daria che compie 9 mesi di sconfinato amore, e la vita non è mai stata così degna di essere vissuta. Certo, l’inquietudine arriva da lontano e tornerà tutte le volte che ci saranno delle difficoltà dentro e fuori di me. La rabbia e un sentimento strabordante di ingiustizia mi accompagneranno sempre quando ripenserò alla guerra civile in Iugoslavia, e ancora di più al dopoguerra. La moltitudine triste di sommersi ha vissuto gli ultimi decenni in una solitudine emotiva che non ha concesso loro nemmeno il balsamo della condivisione. Ho scritto non so quanti caratteri già solo in questo post (sto facendo la prima stesura a mano) e non ho tirato fuori quasi nulla di quel dolore profondo. Estraggo pochi lacerti e fa già troppo male, prevale l’autoconservazione e la voglia di restare in superficie. Ho paura che questa pandemia sommerga molti nella povertà (non solo materiale) e nella solitudine, e che pochi si salvino, e non i più meritevoli. Temo che qualcuno possa approfittare del post pandemia come succede nei dopoguerra. E che alla fine questo esito venga accettato come inevitabile anziché giudicato come ingiusto. Non so se queste mie paure siano fondate, sensate o strampalate. Sono sensazioni che non hanno fondamento nella ragione ma in un vissuto in qualche modo compresso, come il gas in una bomboletta. Come detto, arrivano da lontano. Non posso trarre beneficio per il mio malessere pensando alla grande il proverbiale barca comune. Condivido la croce della guerra civile con milioni di iugoslavi sommersi, e non ci siamo potuti consolare in nessun modo.
So di un gruppo di profughi della mia città natale che si incontra in una kafana nel posto dove sono finiti a vivere. Al muro della sala dove si trovano a bere hanno appeso la foto della fortezza che da oltre mille anni fa ombra alle case e strade di Knin e quando alzano un poco il gomito si mettono tutti a piangere. Dovrei ridere, ma mi si stringe sempre il cuore a figurarmi la scena. Quando si perde si è soli, anche in mezzo agli altri. 
È giusto l’appello a bandire le metafore guerresche questi giorni. Non siamo in guerra. E così il parallelismo più grande rischia di essere purtroppo quello con i sommersi dalla situazione e con le ingiustizie che dovranno subire. Io non posso lasciarmi andare alla disperazione perché Daria dorme qui accanto con l’abbandono dei neonati e perché un suo sorriso sbriciola ogni paura possibile. Ma mi fa soffrire pensare che è più probabile un aumento delle ingiustizie già mostruose che non una loro diminuzione. Poiché però non siamo in guerra, anche se siamo in una brutta situazione, spero che almeno qualcosa, collettivamente e individualmente, risulterà positivo. Scaravento qui i miei desideri ingenui sparsi.

  • Voglia di godere di quelle strade senza auto che abbiamo agognato dai balconi.
  • Rispetto e riscoperta di varie forme di natura.
  • Riflessione sulle interconnessioni, tra gli uomini ma anche tra i paesi e tra i processi produttivi, logistici e distributivi.
  • L’Internazionale, anche non socialista.
  • Valorizzare, spargere e apprezzare le coccole.
  • L’esistenza dei più fragili, da non negare.
  • Le piazze, i crocicchi, i muretti, i giardini, i portici, ma pure i lungofiume e i viali sottoutilizzati di periferia.
  • Il lavoro come impegno e come risultato non come occupazione per ore e ore di una scrivania.
  • Meno parole, ma meglio scelte (questo post è un pessimo esempio, lo so).
  • Nazionalismi al rogo.
  • Rigetto del poverty shaming.
  • Il lievito madre e tutte le robe buone che vi ho visto preparare usandolo.

*

È sempre buio fuori e tutto tace. Non una macchina passa, e questo è comunque bello.

L’inquietudine che arriva da lontano perlomeno la so riconoscere, ho dovuto imparare a conviverci. Aver imparato a condividere frammenti di questo dolore è un antidoto non pienamente efficace, ma bastevole, anche per la generosità di molte orecchie che con affetto si sono prestate all’ascolto. Non so come ne usciremo, e forse qualche parallelismo lo riconoscerò. Ma non siamo in guerra. È già una buona cosa. Lunga vita al lievito madre! 

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7 balcanici motivi per vedere la serie croata Novine | The paper

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La serie imperdibile dell’anno non è né americana né inglese. E non è nemmeno italiana. L’anno è ormai a metà, ma voi dedicatevi a guardare Novine e non ve ne pentirete. La trovate su Netflix con il titolo internazionale The paper, perché “novine” significa giornale quotidiano, e delle vicende di un giornale tratta, con una qualità che forse non ti aspetteresti da una produzione tutta croata. Chi scrive l’ha iniziata a vedere per motivi biografici, essendo nata in Dalmazia che della Croazia è la regione costiera più bella, e per noia, avendo una volta oziosamente digitato “serbocroatian” nella barra di ricerca di Netflix, poi dice che divanarsi non serve a nulla… Ma voi potete vederla anche senza avere un cognome in -ić perché le cosebelle sono universali. Ecco 7 buonissimi motivi per non perderla.

Europea, ma esotica.

La croazia è un vicino lontano, di cui sappiamo pochissimo perché i media se ne disinteressano, e che visitare una settimana d’estate non basta. Guardando Novine la si avverte esattamente così, vicina come tanti altri paesi dell’UE (dal 2014) e remota come può esserlo un luogo in cui “prima della guerra” vuol dire meno di trenta anni fa.

Dark, molto dark, e cattivi cattivissimi.

Novine racconta la vita travagliata di una redazione di giornalisti bravi e dediti, alle prese con lo strapotere di politici, poliziotti, giudici e uomini e donne d’affari dal passato sempre inevitabilmente opaco e privi di ogni scrupolo morale. Il più pulito ha la rogna, e House of cards pare un collegio di educande al confronto.

Tutti i mali del sovranismo, spiegati bene.

Soprattutto nella seconda stagione (uscita su Netflix a inizio di quest’anno) la connessione tra deriva morale e nazionalismo cieco è palese e raccontata attraverso le azioni, i gesti e le parole di personaggi eterogenei tra loro, di parti politiche avverse e di estrazioni tra le più varie. Non si scende mai nella retorica del “tutto un magna magna”, però: le contraddizioni sono mostrate in modo piano e crudo, con una sensazione di inevitabilità che mette angoscia ma tiene pure incollati allo schermo.

Fiume fotogenica.

Novine non è girato né ambientato nella scontata capitale Zagabria, ma in una città costiera e portuale che fu a lungo italiana. Rijeka d’inverno è una scenografia livida perfetta, ripresa da ogni angolazione anche con droni parsimoniosi e benevoli. Ci sono le calli del centro, i portoni socialisti di periferia, le opulente stanze del potere, le ville di design in collina, i bar dall’aria densa.

Croatian way of life, sesso fumo e alcool.

Non siamo più abituati (per fortuna) a vedere fumare ovunque, dal bar al ristorante alla casa di qualcun altro. In Novine tutti fumano e bevono (whisky, soprattutto) tantissimo, in continuazione e con voluttà disperata. Può essere utile per ricordarci che tutto sommato stiamo meglio ora che si fuma solo all’aperto, ma anche per rivedere dei gesti che da decenni abbiamo associato ai film su crimini e complotti, con gente che fuma a prescindere, ovunque, e se ne frega. Persino per i non fumatori, liberatorio.

Il serbocroato in tante sfumature, imprecazioni comprese.

Le serie (e internet) hanno compiuto il miracolo che tutte le VHS di English movie collection non potevano sperare di raggiungere. È molto bello godersi le voci originali degli attori e aiutarsi con i sottotitoli se lo slang di Boston (o di LA, o di Londra) non sono alla nostra portata. È altrettanto bello però godersi lingue di cui non capiamo quasi nulla ma che sono intimamente legate all’ambientazione che le caratterizza. Pur trattando temi universali in cui vi riconoscerete di certo, Novine è balcanica fino al midollo, e i personaggi devono parlare una lingua slava. Godetevi Novine in lingua, assaporate gli accenti (una delle giornaliste è serba e non lo nasconde), non arrossite per le parolacce e bestemmie a ripetizione, fanno parte del gioco.

La qualità sta dove si sa esprimerla.

Attori bravi, fotografia curata e chirurgica, regia sapiente del folletto pluripremiato del cinema croato Dalibor Matanić, quello di Sole alto. La realizzazione della serie è stata all’altezza delle ambizioni della produzione, e dei migliori prodotti internazionali in circolazione.
Novine parla di noi e a noi senza pretese universalistiche o pipponi morali. Lo fa perché chi meglio di un vicino lontano può aiutarci a fare quel passetto indietro per guardarsi un po’ da fuori, che è sempre tanto utile quanto difficile? Ci pare che il vantaggio valga lo sforzo di saggiare la prima puntata.

Be cool, watch The paper. O, meglio. Budite pametni, gledajte Novine.

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Buon Natale, di nuovo

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Radovan Prijic arrivò nel villaggio del water rosa nel 1689 alla guida di 48 famiglie che verosimilmente espletavano ancora le funzioni corporali senza supporti ceramici. Arrivavano da varie tappe di una peregrinazione un po’ bellica e un po’ di sostentamento. La leggenda dice che come ricompensa per un aiuto contro i turchi gli avessero detto Fa’ un giro col cavallo dall’alba al tramonto e quel che ci sta dentro è per te e per le famiglie al tuo seguito.

Provo una pacata fascinazione per questo antenato dal nome allegro e dal volto ignoto che avrà guardato mille volte come me la Dinara da sotto in su, bruciata d’estate, innevata d’inverno, sempre battuta dal vento che soffia forte dove sono nati i Prijic. Mi chiedo spesso come fosse la vita di quelle 48 famiglie, come trascorressero le loro giornate nei luoghi che ho tanto amato e che amo ancora nonostante tutto, perché ti possono espropriare la casa e rubare la tazza del water, ma non possono toglierti i ricordi.

Quando si avvicina il 7 gennaio penso spesso che quei Prijic certamente aspettavano il loro Natale con molta più trepidazione di quanto non succedesse quando io ero piccola e avevo le idee molto confuse su tutta la questione religiosa. Andavano a messa? Si faceva di mezzanotte come oggi quella cattolica? Cosa mangiavano? Si scambiavano doni? Avevano con sé le icone tipiche del culto ortodosso? Non so nulla di loro, e non ho modo di sapere nulla di loro. Ci penso di rado, ma quando ci penso mi prende il solito nodo alla gola che non so spiegare. Si tratta di gente morta e sepolta da tempo, ma in qualche modo sono legata a quella avventura e alla scelta che fecero di stabilirsi lì, dove nasce la Krka e soffia gagliarda la bora.

I Balcani di fine ‘600 dovevano essere un posto piuttosto impegnativo da girare con vecchi donne e bambini al seguito. Il Ponte sulla Drina è ambientato a diverse centinaia di chilometri da dove sono nata io, ma leggendo quelle pagine magnifiche mi si era attaccato addosso un certo mal dei balcani come se avessi sentito il peso di quei secoli che sembrano millenni, con le dominazioni che si susseguono e le popolazioni che scoprono se è il loro turno nell’essere perseguitati, vessati o premiati.

Non sono religiosa ma sono molto spirituale, ha detto poco tempo fa una donna che ammiro molto e che è stata un sostegno prezioso in questo ultimo periodo così difficile. È un bel modo per prendere le distanze senza rinnegare un collegamento emotivo che è sciocco mettere a tacere. Non mi identifico in nessuna religione, non frequento luoghi di culto se non per godimento artistico e architettonico, ma sono nata in una famiglia di antiche tradizioni cristiane ortodosse, e verso questa eredità storica e umana provo molta tenerezza e un po’ di senso di responsabilità.

Forse Radovan Prijic sarebbe deluso se sapesse che la sua bisbisbisnipote non va a messa e non è nemmeno battezzata. Ma credo sarebbe contento nel sapere che la stessa nipote si emoziona quando pensa a quel giro a cavallo nel 1689 e immagina la sera di Natale di quelle famiglie che festeggiavano quando un’altra parte del mondo cristiano si congeda anche dall’Epifania chiudendo un pezzo importante dell’anno liturgico. Chissà cosa sapevano dello Scisma d’Oriente e della questione del filioque. Chissà se avevano vicini cattolici come avevo io da bambina, senza saperlo.

La guerra civile che ha insanguinato il paese in cui sono nata non è stata una guerra religiosa. Ma la religione è stata un simbolo di divisione “facile” e anche mediaticamente efficace per raccontare il senso di quel che un senso non l’aveva. Io sono italiana e sono nata iugoslava. Sono dalmata, sono croata e sono serba, ma non mi faccio dire cosa sono da qualcun altro, mai. Festeggio il Natale cattolico perché così ho imparato a fare nel paese dove vivo, perché anche i bambini non battezzati possono fare i lavoretti natalizi con il DAS e la pittura a tempera. Festeggio anche il Natale ortodosso, perché sono nata dove Radovan aveva scelto la sua casa e quella dei suoi discendenti, almeno fino a me e a mia sorella.

Amo fare i regali alle persone che amo. Ma quest’anno ho scelto di farne solo a persone che non conosco, dedicando questo pensiero a chi mi è stato accanto con tante carezze, persino a distanza. Ci sono tantissimi rifugiati nel mondo che cercano dove potersi sentire a casa e riavere il loro water rosa. Pochi di loro saranno ordotossi, ma del resto non lo sono nemmeno io. Eppure a tutti loro, alle persone che amo e a voi tutti auguro Buon Natale, di nuovo.

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Quando Milošević e Tuđman rubarono la tazza del water rosa

Questo post parlerà di tazze del water. Chi mi frequenta con una certa regolarità sa bene che non parlo di funzioni corporali, quindi è parecchio strano che io scriva di tazze del water. Ma sempre più mi sto rassegnando al fatto che la vita è fatta anche di funzioni corporali e di necessità di cui per anni ho sognato di poter fare a meno, come dormire.

Questa storia è una storia privata, che rendo pubblica per un misto di amore, terrore, odio, paura per quell’odio, narcisismo, esasperazione, rabbia, schifo, malinconia, (iugo)nostalgia, voglia sopita e rimossa di vendetta, gratitudine. E tanto altro ancora. Questa storia è una storia privata e come sempre faticherà a scriversi, perché se sono pudica rispetto alle funzioni del corpo figuriamoci rispetto alle funzioni del cuore.

La prima tazza

Quando mio nonno era andato in pensione, lui e la nonna erano tornati a vivere nel “selo”. Il selo è un piccolo centro agreste che gravita attorno alla città, ma già solo sul concetto di selo dovrei scrivere un post a parte. Diciamo “villaggio”, con molta approssimazione. Poiché avevano vissuto in città nelle “case dei ferrovieri” per tanti anni, non avevano mai costruito il bagno nella casa al villaggio, e ora era ora. Bisognava dunque comprare una tazza del water. “Vado in città a prenderla” disse il nonno. “Biljo, come la prendo?” Cosa poteva rispondere una bambina di sette anni? “Rosa! Dido, prendila rosa!” E giù a ridere. (Ridevo sempre.) Grandissima fu la mia sorpresa quando il nonno tornò dalla città con una tazza del water rosa. Voglio dire, non pensavo che il nonno avrebbe preso davvero una tazza rosa. E invece mio nonno era così: semplicemente straordinario. E così per un paio d’anni le nostre funzioni corporali poterono contare su quella tazza rosa, le volte che andavamo a trovare i nonni nel corso di quella strana e meravigliosa vita a metà tra le due sponde dell’Adriatico selvaggio.

La barbarie, e la seconda tazza

Quando la città, il villaggio dei miei nonni e tutti i villaggi attorno furono saccheggiati, i saccheggiatori si portarono via anche la tazza rosa. Poi forse semplicemente l’avevano rotta e fatta in mille pezzi. Ma invece “Hanno portato via ogni cosa, anche la tazza rosa che aveva scelto Biljana” dicevano le cronache familiari. Perché come si raccontano e si tramandano le storie è importante. Di fatto quella tazza rosa era stata fatta sparire, portandosi via la mia risata e la cura che aveva avuto mio nonno nell’assecondare la mia richiesta birichina, perché in fondo se puoi far felice qualcuno perché non dovresti farlo? I miei nonni erano fuggiti assieme a centinaia di migliaia di persone poco prima di quel saccheggio e la loro epopea meriterebbe che io trovassi la forza di raccontarla e condividerla. Ma questo post parla più modestamente di tazze del water, e bisognerà pur quagliare. I miei nonni resistettero qualche tempo in Italia da noi e da mia zia. Ma poi coraggiosamente o per incoscienza o inevitabilmente tornarono appena poterono. “Hanno portato via tutto, persino la tazza rosa di Biljana” aveva raccontato il nonno al telefono. “E tu cosa hai fatto?” aveva chiesto mio papà. “Sono andato in città a comprare una tazza del water, perché la nonna potesse usare il bagno.” Nessuna guerra, nessun saccheggio, nessuna malattia (come scoprimmo con dolore poi) potevano togliere a mio nonno l’amore sconfinato per i suoi e la voglia di mostrarlo sempre. La stessa cura con cui aveva risposto al mio innocente capriccio di bambina in tempo di pace la metteva nel risparmiare a mia nonna l’umiliazione di non potersi occupare delle funzioni corporali con normalità dopo la guerra.

Epilogo: di tazza in tazza

Oggi è la giornata del rifugiato. Non sono stata rifugiata per caso, e per un’intuizione di mio papà che meriterebbe un lungo e sofferto racconto. Ma questo post parla di tazze del water, e immaginate incamminarvi verso l’ignoto con la morte nel cuore e il pensiero alla prossima tazza del water su cui vi potrete sedere, che chissà tra quanto tempo e tra quanto spazio sarà. Non sono stata rifugiata per un pelo, e ancora combatto con il più assurdo dei sensi di colpa. Sono stati rifugiati quasi tutti i miei familiari e quasi tutti gli amici e conoscenti della città dove sono nata, le mie compagne di giochi, gli alunni di mia mamma, i giocatori di mio papà. Sono stati rifugiati negli anni Novanta del Novecento in Europa, per colpa di chi quella guerra l’ha voluta e di chi non l’ha voluta fermare. Quando sono tornata in città dopo più di sette infiniti anni in casa dei nonni c’era la tazza bianca di quel primo viaggio in città di mio nonno. E c’erano anche delle coperte grigie che pizzicavano un po’. E delle scodelle semplici in alluminio di foggia militaresca. Pochi oggetti uguali per tutti, come in un involontario buffo omaggio alla repubblica socialista seppellita da quella guerra. Un kit di sopravvivenza indispensabile, portato dall’UNHCR e da pochissime altre organizzazioni (mia nonna parlava sempre bene di certe chiese protestanti, mi spiace non saperne di più). Provo ancora un dolore che non riesco a dire per una guerra civile di cui non mi capacito, e di odio verso chi l’ha scatenata. Ma sono grata a chi ha aiutato i miei nonni durante la dolorosa marcia, e a chi li ha sostenuti in un altrettanto doloroso ritorno a una casa che non era più casa.

Il mondo fa talmente schifo che può capitarvi che qualcuno vi porti via tutto, pure la tazza del cesso. Ma se siete fortunati magari avete chi vi ama tanto da avervi regalato una tazza del water del colore che volevate. E magari pure se vi hanno portato via tutto qualcuno durante una dolorosa marcia vi apre la porta di casa consentendovi di pensare alle funzioni corporali. E qualcun altro vi aiuta poi a cercare una vostra nuova tazza del water -di qualunque colore sia- a casa vostra anche se non sarà più casa, o da qualche parte del mondo, perché ciascuno che ama ne merita un pezzetto.

E ora pensate, fate, donate.

***

Il titolo del post si ispira a un libro per ragazzi molto bello, Quando Hitler rubò il coniglio rosa: regalatelo!

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A San Nicola il Sole è alto

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Nella lista dei migliori film della mia rivista preferita c’è il film girato nella mia città e scrivo che è ancora San Nicola che è la festa della mia famiglia. E detta così sembrerebbe quasi che ci sia da festeggiare invece sono triste anche se questo annus horribilis volge al termine e forse ci darà un po’ di tregua. Sole alto è un film bello anche se non me lo ricordo tanto bene e le recensioni andrebbero scritte subito dopo aver visto il film. Per dire avrebbe molto più senso scrivere di È solo la fine del mondo che l’ho visto da poco anche se non è bello come Mommy e in qualche snap ho detto pure che alla fine non vuoi tanto bene a nessuno dei personaggi, mentre ero in bici. Ma sono davvero triste ed è San Nicola e i nonni non ci sono più e penso che vorrei piangere fino a Capodanno quando viene Nonno Gelo. Che poi sarebbe San Nicola, e alla fine tutto si tiene. Non capirete mai Sole alto, ma vedetelo lo stesso.

Dalibor Matanić ha girato questo film a Knin ma non gli ho chiesto perché. Uscita dalla Sala estense dove l’avevo visto in anteprima italiana al Festival di Internazionale a Ferrara gli ho stretto la mano, fatto i complimenti e detto che sono di Knin. Che è vero e falso insieme. Perché è come dire Sono di Fantàsia, Sono di Babilonia, Sono di Mordor. Lui ha detto qualcosa come Ah, carino! a riprova del fatto che non è quasi mai una buona idea approfondire con gli artisti. (Questa memoria è un po’ ingenerosa, perché mi lascio influenzare da mio papà che ha spesso dei giudizi sommari che travolgono ogni mio tentativo di pensiero autonomo.)

Non gliel’ho chiesto, ma forse il film è stato girato a Knin perché costava poco. O forse perché c’era natura selvaggia abbastanza e desolazione abbastanza e villaggi semiabbandonati abbastanza per girare questo film che sono tre ma che è sempre lo stesso e infatti gli attori sono sempre loro due anche se hanno nomi diversi e capigliature diverse. Un film sulla guerra, chiaro, perché un film di un croato molto zagabrese girato a Knin che vince premi internazionali con attrice serba di che cosa vuoi che parli, Che cliché signora mia, questi balcanici sempre a parlare delle loro guerre quando la gente muore ad Aleppo. Non capirete mai i Balcani, ma andateci lo stesso.

Ho sempre pensato che se avessi scritto un libro avrebbe parlato della guerra. In un modo o nell’altro. Anche se mi censuro un sacco di volte. Perché penso quasi sempre che a voi giustamente non ve ne frega e v’annoia. Quando sono triste piango. Ma non vi cerco perché penso che vi stufo. L’ho pensato per vent’anni, da che è finita la guerra, ma oggi è Sveti Nikola ed è la festa della mia famiglia e un bellissimo film è stato girato nei dintorni scenograficissimi della mia città e se anche vi stufate vi scrivo quanto è stato doloroso vederlo e quanto la guerra faccia male anche se è finita da ventuno anni e qualche mese. Era iniziata quattro lunghi anni prima, che è quando è ambientato il primo triste episodio. Loro sono giovani e vanno al fiume. Lei è bellissima e lui lo sa. Lei è bellissima e lui non ci crede quasi che una bella così gli dia retta. Lui suona la tromba, ma mentre spirano forte venti di guerra non è il caso di mettersi a suonare uno strumento tanto marziale. Non capirete mai Jelena e Ivan, ma andateli a vedere lo stesso.

Andarsene è stato doloroso. Ne ho ricordi vividi e angosciosi. Faceva caldo come fa sempre caldo nei giorni attorno al mio compleanno, e il Sole era alto mentre passavamo da un posto di blocco all’altro. Andarsene è stato doloroso, ma mai come ritornare. Nel secondo episodio c’è un ritorno. Ed è tutto sgarrupato e tutto triste e faticoso. Ricordo i colpi di proiettile in tutti i muri e tutto che mi sembrava minuscolo perché ero andata via che ero un metro e quaranta sì e no. E nel secondo episodio c’è una scena di sesso intensa e piuttosto esplicita che è sempre un poco strano vedere una scena di sesso al cinema (anche se la Sala estense non è proprio un cinema) seduta accanto ai tuoi genitori. E la scena di sesso esplicita finisce con un To je to che è poco traducibile e che mi chiedo come abbiano devastato come al solito nel doppiaggio che come al solito chi gli piace il doppiaggio e i doppiatori italiani più bravi del mondo verrà defenestrato. Non capirete mai Nataša e Ante anche se fate del sesso esplicito, ma andateli a vedere lo stesso.

Non sono una grande fan dei finali. Un brutto finale non mi rovinerà un film amatissimo. E viceversa un buon finale non risolleverà le sorti di una pellicola già condannata da un giudizio sommario di impronta paterna. Non me lo ricordo bene come finisce Sole alto. Meglio così. Così non faccio spoiler e così Ines non mi sgrida. Del terzo episodio mi piace che i protagonisti siano miei coetanei più o meno e che siano smarriti e incazzati anche se pure loro si mordono la lingua perché tanto non serve a niente. C’è una festa al lago o al fiume che devono essere uno dei miei laghi o dei miei fiumi (i miei fiumi, come Ungaretti). C’è il tentativo di sottrarsi all’impegno perché forse è più facile. Per sopravvivere all’assurdo, al passato che devi archiviare ma mica è una pratica, e comunque ti sei scordato l’ordine alfabetico per farlo. E poi quale alfabeto vale, che sono due e manco nello stesso ordine? Lei è serba e lui è croato, o viceversa. Ma vi siete mica mai innamorati pensando che era vietato, voi? Non capirete mai Marija e Luka, ma andateli a vedere lo stesso.

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Eravamo 4 amici al Balkan

 

Ho imparato a camminare al Balkan. Un bar senza pretese ma con un giardino estivo sulla strada principale della città dove tutti e quattro siamo nati, “nello stesso ospedale” (chissà perché precisiamo spesso questo dettaglio, specie quando mi chiedono se uno dei miei due genitori sia italiano, o se mia sorella sia nata in Italia, circostanze entrambe non vere).
Il Balkan aveva delle sedie bianche in plastica finto vimini. I miei genitori e i loro amici le occupavano fino a tardi nelle calde sere d’estate, e c’ero io che non volevo andare a dormire mai, e che stavo buonissima perché sapevo che al primo capriccio avremmo preso la strada di casa e sarebbe così finito il divertimento.
Le sedie del Balkan erano stabili ma leggere. Almeno lo erano abbastanza da poterle afferrare per il telaio e trascinarne una in giro per la veranda a meno di un anno di età, rendendo meno traumatico il passaggio verso una posizione eretta stabile. Ho portato in giro per settimane una di quelle sedie, alternandola con la mano del più premuroso dei padri. Nelle estati successive ho continuato a godermi quelle piacevoli serate di chiacchiere e risa, finché è stato possibile.
Balkan nella mia memoria è ancora oggi prima di tutto un posto dell’anima. Solo in secondo ordine è la penisola che fa da polveriera all’Europa da secoli, e ogni tanto fatalmente esplode.
Mi stupisce e sconvolge che tanti amici amino i miei luoghi natale, le mie infinite ex patrie. Quasi tutti li ho conosciuti attraverso quel luogo di isolamento e solitudine e freddezza dei rapporti sociali che certuni chiamano “il mondo del web” come fosse un altro, che chissà con quale orbita gira attorno al Sole.
Con tutti loro –se esistesse ancora– mi siederei ai tavolini della veranda estiva del Balkan a condividere una Karlovačko e a scambiarci pareri fino a notte fonda.
Non essendo ciò possibile perché han fatto saltare in aria la polveriera negli anni Novanta del Novecento meno di un decennio dopo quei miei primi passi col supporto di una sedia, li saluto da queste pagine, e li ringrazio.

Aldo

Aldo è un uomo di confine. Iugoentusiasta con cognizione di causa, perché è sempre stato lì, a un tiro di schioppo (scusate…), prima durante e dopo la guerra. Per Aldo cenare in Slovenia non è più complicato che in tanti altri posti della sua regione, la più a est d’Italia, già in odor di Balcani.

Maresciallo Tito

Saša deve essere nato dalla parte sbagliata dell’Adriatico, non c’è altra spiegazione. Conosce ogni dettaglio della geografia, della storia, della musica e della gastronomia iugoconnessa. E sarà contento che lo chiami Saša, piccolo Aleksandar, ci scommetto.

Liza

La quota rosa di questa mia classifica predilige delle mie terre uno dei suoi prodotti migliori: lo sport, e nello specifico il basket. E come darle torto? Per capire qualcosa dello sport iugoslavo e molto delle guerre iugoslave consiglio sempre di guardare questo splendido documentario americano (segnalatomi da Vittorio, che ancora ringrazio per questo regalo).

Beppe

Un giurista torinese follemente innamorato di quel che c’è a est di Trst. Per me è un mistero. Ma un mistero piacevole che non voglio sondare. Gli piacciono i miei luoghi, la mia lingua. Così. Che bello è?

Frane

Francesco ha un incomprensibile profilo col lucchetto. Potete però leggere il suo libro. Per chi studia comunicazione è più utile questo testo di certi manuali general generici che sproloquiano di débrayage facendo esempi pescati sulla luna. Belgrado e Mostar sono testi (in senso semiotico) all’aria aperta, benissimo raccontati da una bella penna e da una bella persona.

Rodolfo

Quando sento che i giornalisti “di oggi” non hanno più voglia di consumare la suola delle scarpe sento ribollire il sangue nelle vene. Che cretinata. Rodolfo Toè consuma le sue suole sulle strade di Sarajevo, dove già fa un freddo cane.

Davide

Non solo studia i Balcani, ma ama parlarne e scriverne. Retuittatore entusiasta (vi ho avvisati), ma solo di quel che vale la pena leggere.

Ovviamente queste sviolinate valgano come FollowFriday. Perché la scorsa settimana Simone mi ha fatto questo imbarazzante scherzetto.

Nessuno può meritare una descrizione tanto impegnativa, ma questi GenteDaSeguireSuggeritaOgniVenerdì in forma più lunga e ragionata dei 140 caratteri canonici di PratoSfera mi son piaciuti molto. E allora ho ripescato questo post in bozza da molto e ve lo vendo come #FF. Furbissima, eh?

Ma io –poi– ho davvero l’accento bolognese?

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Poplave pop (alluvioni e altre disgrazie)

Foto di @tompeter da altri disastri europei

L’Europa affonda e l’Europa non lo sa. In Europa le acque di fiumi esondati travolgono uomini e terre e l’Europa guarda le devastazioni da lontano, un po’ come quando in Europa si sparavano tra di loro e l’Europa diceva che avevano l’odio nel sangue e che erano guerre di religione.

Le alluvioni in Bosnia, Croazia e Serbia (in salvifico ordine alfabetico) sommergono case e cose ma almeno fanno emergere ancora una volta le contraddizioni di un continente ambientalmente fragile, geograficamente unico, culturalmente ricco e politicamente diviso.

A poco è valso alla Croazia essere oggi il 28esimo Stato dell’Unione Europea (non dell’Europa, ma dell’Unione Europea: la differenza è chiara, vero?), visto che a quanto pare chiederà gli aiuti per l’alluvione del secolo assieme a Serbia e Bosnia, che nell’UE ci entreranno –forse– solo tra molti anni. Quello che non ha potuto la passione antimilitarista e antinazionalista di tantissimi cittadini dei tre paesi hanno potuto le devastazioni dei giorni scorsi. È rinata una sorta di Iugoslavia della solidarietà palustre, in cui tutti aiutano tutti, in cui la piccola Macedonia manda cibo e altro di prima necessità ai grandi vicini per ricordare la mobilitazione nazionale per il terremoto di Skopje nel 1963. Una vita fa.

Questa solidarietà vive sul web solo dopo esser circolata sulle strade dissestate e nei campi allagati, tra una iugonostalgia finalmente non fine a se stessa ma utile e pragmatica, il solito humor balcanico agrodolce tendente al nero, e l’ambientalismo consapevole di chi vive in simbiosi con la natura da sempre. Perché i Balcani sono così: terre fragili e selvagge con una natura prorompente, piccoli villaggi e cittadine più che grandi metropoli, ove anche chi è nato e cresciuto in città ha sempre un “selo” (borghetto di campagna) ove tornare.

Riporto qui un compendio minimo tradotto e commentato di quel che succede a pochi chilometri dai nostri confini, per ascoltare quelle voci che sempre ci parlano, ma che nel 1991, poi nel ’92, fino al ’95 e poi ancora nel ’99 abbiamo ascoltato distrattamente, convinti forse che l’Europa non fosse abbastanza Europa per essere considerata dall’Europa.

Il territorio

Che sia dallo spazio o dal livello del mare, lo scenario è desolante.

Gunja (vicino Vukovar, in Croazia): senza parole.

La Sava (marrone) che entra nel bel Danubio blu: impressionante.

“Solidarietà, coraggio, tristezza e abbracci.” Niente da aggiungere.

“Golubac è l’unica città in Serbia che abbia un sistema permanente di difesa dalle alluvioni. L’unico!”
In un paese con tanti fiumi non è una scelta saggia. Certo che anche in Italia…

 

I numeri magici

1003 è il numero magico per gli SMS: tantissimi lo hanno scritto OVUNQUE: “Già che stai fermo al semaforo, manda un SMS al 1003”.

“Affinché la mucca del vicino sopravviva manda un SMS al 1003!”

E la storia finisce anche bene: “Sapete quella mucca che si è salvata salendo sulle scale, che tutti avete condiviso? Le hanno portato da mangiare!”

 

Fratellanza e unità

“Ok, la vecchia Iugoslavia s’è sfasciata, ma servirebbe che per queste catastrofi si formasse un piano di intervento per l’intera regione. Siamo troppo piccoli per combattere da soli queste calamità.”

“Chi nemmeno dopo tutto questo ha capito che tra gli uomini esiste solo la divisione tra uomini e merde, nemmeno un asteroide in testa l’aiuterebbe.”

“Ehi, Vučić, sei il migliore. Ora via, lasciaci in pace a fare il lavoro per il quale ti paghiamo.”

“Ci sarà il tempo per la rabbia e per lo scaricabarile. Prima sopravvivere.”

 

Gli angeli del fango

“La squadra dei volontari da Paracin nelle zone più colpite della città.”

 

Sportivi e altri famosi

“Dall’alluvione è riemersa la Iugoslavia” e “Lunga vita ai popoli della vecchia Iugoslavia.”

Tanta bellezza al lavoro.

Solidarietà alle terre del basket.

E il campo da basket si fa campeggio.

“Ringraziate ancora un po’ e chiamate re gente che della Serbia se ne frega” (e ricicla foto di campagne precedenti).

Invece i veri VIP (il mio gruppo croato contemporaneo preferito) aiuta davvero: “Ogni prodotto (degli aiuti) marcate con la lettera H per evitare che finiscano in vendita!”

 

Non ci resta che ridere

“Anche il Compagno Maresciallo vuole aggiungere qualcosa: Ora dopo queste alluvioni vi è chiaro che è più utile avere il piano Difesa e protezione che il Catechismo a scuola?”

 

Per aiutare dall’Italia

Le indicazioni migliori sono ancora una volta da Osservatorio Balcani. Quindi, ancora una volta: hvala.

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Lavoro vecchio fa buon brodo*

Ho un nuovo lavoro. Evviva. Ma ho anche un vecchio lavoro. Evviva, evviva. Così dico Ho un nuovo incarico, che fa un po’ ridere ma almeno evito che la gente chieda Ma allora hai lasciato Kitchen?! Perché ho sempre raccontato la mia agenzia come un luogo bellissimo per lavorare. E lo è ancora. E sono contenta di essere ancora qui. Ma anche il mio nuovo lavoro/incarico è una stupenda scommessa, che mi sta facendo imparare una valanga di nozioni nuove. Mi sento una spugna. Di come andrà questo esperimento avrò modo di riflettere. E per quanto mi fidi poco delle prime impressioni, ne ho già collezionate un monte. Di questo primo periodo schizofrenico in cui passo mezza giornata da una parte e l’altra mezza dall’altra parte ho collezionato alcune impressioni che non voglio dimenticare. Eccole, non esaustive e in ordine sparso.

Conclave

κ Ho da sempre le chiavi del mio vecchio ufficio. Entro, esco. Al sabato, nei rari pomeriggi di compere, ci mollo le sporte se poi voglio restare in giro in centro. Se voglio finire un lavoro di domenica pomeriggio non devo chiedere. L’ufficio è la mia, la nostra casa. Amata e odiata come tutti i posti dove passi un sacco di tempo.

ρ Nel nuovo ufficio suono come un ospite qualsiasi. Al citofono qualche volta chiedono di identificarmi, altre volte danno il tiro e basta. È strano. (Ma è anche bello. Detesto usare le chiavi, sono una scampanellatrice indefessa.)

Signorina Sotuttoio

κ Io e i miei colleghi storici abbiamo profili diversi (ci sono i creativi, gli amministrativi, i webqualsiasicosa), ma condividiamo un vastissimo background comune. Un lessico condiviso sterminato. Prepara gli esecutivi, controlla la ciano, facciamo una ricerca di anteriorità, stampa i layout. Io parlo, loro capiscono e rispondono; e viceversa. È bello, è utile, è efficiente.

ρ Con i miei nuovi compagni di viaggio non condivido nemmeno la nazionalità, in taluni casi. Che poi pure io a nazionalità sono un casino, e quello è il problema minore. Ho dovuto spiegare che no, non ho competenze artistiche e grafiche di alcun tipo. Pian piano imparano a inquadrarmi, e mi fanno domande cui rispondo con piacere. Ne faccio tante anche a loro, che sono bravissimi e superorganizzati, è un piacere farmi contaminare su temi di economia e politica internazionale.

Camera cafè

ρ Nel nuovo ufficio c’è la macchinetta automatica del caffè, quella ad armadio. Quella brodaglia mi buca lo stomaco, ma ho comunque preso la chiavetta, di base perché la segretaria superpiù mi terrorizza e mi pareva brutto dire di no. Non ci vado mai, alla macchinetta armadio. Ma sento i colleghi che ci chiacchierano davanti, come Luca Nervi e Paolo Bitta.

κ Nel vecchio ufficio abbiamo la moka. Anzi, due. La domanda, da sempre, è la stessa. Faccio la grande o basta la piccola? Quel rituale dell’apertura, dello svuotamento, sciacquo, e riempimento con nuova miscela è un segno di pausa, cura e pazienza. Ti faccio un caffè? quando un collega è un po’ abbattutto è una grande dichiarazione d’amore. Di moka.

Mezzogiorno di fuoco

ρ Nel nuovo ufficio siamo tanti. Troppi e con orari troppo diversi per poter pensare di pranzare tutti assieme contemporaneamente. Chi esce, chi va a casa, chi si porta la schiscetta (che termine meraviglioso, schiscetta). Sembra tutto caotico, in realtà è fluido e rodato.

κ In Kitchen abbiamo da sempre onorato il nome della nostra agenzia, cucinando nella cucina della Cucina piatti semplici e salutari, sempre deliziosi. Risotti con zucca o radicchio, paste dai mille condimenti colorati, zuppe di legumi e cereali, insalate con le verdure della cassetta bio che arriva ogni martedì mattina. In tanti anni non sono mai rimasti i piatti nell’acquaio, dopo. C’è sempre chi riconosce lo sforzo di chi ha cucinato per tutti e lava pentole e quel che c’è. Mi pare una gran cosa.

Il signor Porter e io

κ La mia storica agenzia offre servizi di comunicazione, e io seguo alcuni dei progetti che nascono dall’inizio alla fine. La comunicazione è il prodotto e sono in prima linea con soci, collaboratori, clienti e fornitori.

ρ Roncucci&Partners è una business consultancy che aiuta le imprese italiane a internazionalizzarsi per crescere e restare competitive su un mercato che è globale e sempre più complesso. Io sostengo la mia nuova impresa impostando la comunicazione istituzionale e aiutando i miei nuovi colleghi a curare una comunicazione di progetto più efficace. Sono una funzione trasversale, di supporto. La circostanza mi piace e mi fa riflettere.

Sarà impegnativo, ma sono contenta.

* Questo titolo è brutto come ogni azione di copywriting scaturita dalla mia testa poco brillante. Non vuole essere irrispettoso, anzi. Il brodo è la pietanza nazionale di dove sono nata, ed è buonissimo. L’ho scritto mentre il post era in bozza pensando di cambiarlo, ma poi non l’ho fatto. Mi affeziono ai titoli, pure se sbagliati, come mi affeziono ai posti di lavoro meravigliosi, pure se poi li tradisco a metà per imparare qualcosa di nuovo.

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Il primo dicembre io esco a vado a votare CONTRO.

CONTRO i froci.

Perché i froci non esistono in natura, come la plastica, gli occhiali e gli aerei.
È una cosa contro dio e contro natura. Se dio avesse voluto che volassimo avremmo tutti avuto un biglietto aereo o ci avrebbe regalato un aereo alla nascita. Per questo io non prendo più l’aereo e non sono frocio né niente.

Ed è una malattia, lo sapete? I froci sono malati. Sì sì sì. E la malattia si cura così li possiamo picchiare. Pure i malati di tubercolosi gli dai due ceffoni e non hanno più la malattia, perché è colpa loro se hanno avuto la tubercolosi. Eh sì.

E sapete cosa? Io voterò CONTRO anche perché quella signora tanto elegante ha detto con una bella voce tranquilla (con le manine congiunte) che dobbiamo votare CONTRO i froci, sapete, eh? Perché lei crede in dio, lei è una vera credente. E in nome di dio MAI sono state compiute violenze. E se lei crede in dio allora è così e basta, è di sicuro nel giusto.

Persino Gesù ha detto Ama il prossimo tuo. Tranne se è frocio! Altrimenti ti piacerà e pure tu diventerai frocio.

E ricordate. È una malattia!

(Domani andrà a votare PRO la Croazia peggiore, l’esatto opposto di quella che avevo incontrato a Bruxelles. Per questo domani voterei CONTRO. Il testo non è mio, ma la mia traduzione di questo spassoso intervento in croato di Ivan Šarić.)

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Primo dicembre contro

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Tra Natale e Santo Stefano (ci sono 15 giorni)

A Bologna ci sono già le luminarie di Natale. Anche nella vostra città, non dite di no. Se nella vostra città non ci sono ancora le luminarie, non vivete in Italia. O siete molto distratti e non vedete le luminarie che ci sono già.

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Ljubljana, ex iugoslavia molto ex, un anno fa

Dopo tutti questi anni, vivo ancora il Natale come qualcosa che mi riguarda poco. L’imprinting familiare è più forte di tutta la pubblicità dell’orrida televisione italiana, dei film natalizi che tornano più puntuali del solstizio, della messa di mezzanotte che mi toccava quando frequentavo gli scout. Il Natale non è roba mia.

Babbo Natale in realtà è Nonno Gelo e porta i regali a tutti i bambini (i bambini sono buoni per definizione) la notte del 31 dicembre, a Capodanno. La festa di tutti. Perché il Natale discrimina, il Capodanno no. Eh. Scusate se mi ripeto, ma la SFRJ stava avanti. Talmente avanti, che hanno ricacciato tutto ciò che la componeva indietro di qualche decennio.

Da piccola, con la scusa che avevo due Natali finivo per non festeggiarne davvero nessuno. Tanto c’era Capodanno. Da grande, ripeto esattamente lo stesso schema. Solo, con un po’ di consapevolezza in più.

Tutte le volte che posso provo a stare con la mia famiglia il 7 gennaio, data del Natale ortodosso. Il Gesù è lo stesso, la stalla anche, ci sono il bue e l’asinello e pure i Magi. È lo stesso evento. La colpa dello sfasamento non è attribuibile al Bambino, insomma, ma unicamente a Gregorio Ottavo che cancellò un paio di settimane sul finire del Cinquecento per far tornare certi calcoli astronomici e i popi ortodossi non la presero benissimo e continuarono a usare il calendario giuliano.

Quindi il Natale ortodosso è sfalsato di due settimane. E così Santo Stefano e l’Epifania. A Halloween qualche spiritoso su Twitter si chiedeva se i bambini serbi potessero uscire a fare Dolcetto o scherzetto? o se dovessero aspettare due settimane. (Adoro l’umorismo balcanico, ha sempre una toccante nota triste/disfattista/malinconica/misantropa/autodistruttiva.)

Ma io questo Natale ortodosso lo amo proprio perché riesco spesso a stare con la mia famiglia stretta (grazie ai miei colleghi per questo giorno extra che mi hanno concesso spesso e volentieri). Non ha un significato religioso. Immagino che questo valga anche per molti italiani rispetto al 25 dicembre. Però per molti di questi molti c’è almeno un retaggio di lettere al Bambin Gesù o a Santa Lucia qualche settimana prima (il 13 dicembre, mi pare: che confusione). A me manca anche questo minimo aggancio.

Una volta alle elementari ci fecero scrivere la lettera dei regali. A parte che per una bambina socialista chiedere dei regali per sé scegliendoli era una bizzarria anche un po’ blasfema, io non sapevo proprio che pesci pigliare. Ma a Gesù o a Dio? chiesi a un’amica. Tanto sono la stessa Persona! fece lei che già andava a catechismo. Massimamente confusa, scrissi questa letterina che principiava con Caro Dio, e proseguiva suppongo in modo altrettanto sconclusionato.

L’ho capito dopo che non è che in Iugoslavia non avevamo il Natale. Anzi, ne avevamo due! Solo che erano privati e non pubblici. Se uno voleva, li festeggiava. Se no, no. E noi di solito no, o almeno non in modo vistoso. Invece le feste di tutti, quelle erano in grande stile. Il Giorno della Repubblica, 29 novembre. Capodanno, con l’albero di Capodanno (un abete con le palle rosse, sì). Il Primo Maggio, LA festa (il lavoro, le fabbriche autogestite, blablabla).

Non voglio essere fraintesa. Non sono nata nel paradiso in terra. Se qualcuno è stato discriminato per la sua religione nella SFRJ (io non conosco nessuno, ma faccio poco testo), me ne dolgo sinceramente. Però l’intento generale era buono e mi piace ancora oggi, nonostante tutto il male che è venuto dopo. A cercare le somiglianze più che le differenze ci si guadagna.

Ci sono sempre più cose in comune di quelle su cui si è in disaccordo. Basta cercarle, valorizzarle. Persino in una società disgregata e a tratti respingente come quella in cui viviamo, c’è così tanto da condividere che non ne abbiamo idea. C’è un ambiente da salvaguardare con maggiore tenacia, e quello è di tutti, no? C’è un paese bellissimo che chiede a gran voce di essere visitato e amato fin dai più piccoli borghi e dagli angoli romiti. C’è tanta vitalità che resta nelle case, nel privato, e che invece è ora di dispiegare nei luoghi pubblici, nelle strade, all’aperto e alla luce del sole. Capodanno arriva presto, ed è per tutti. Mi ricorderò di rifarvi (e rifarci) questo augurio.

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mostovi

Biljaić e altre pronunce: un post sonoro

Premessa. 1) Mai avuto una bella voce. 2) Risulto sempre più pedante del voluto e del dovuto. 3) Non so usare aggeggi di registrazione decenti né al momento voglio imparare. => Mi spiace per voi!

il bel Balkan font, da un libro che girava in Kitchen, fotografato da @biljaic

Siete scusati di tutto, davvero. Il serbocroato è una lingua poco conosciuta, e vivete bene così. Non datevi pena. Epperò chi non è scusato sono i giornalisti televisivi e radiofonici, e i telecronisti. Essendo le mie terre di sport, ci sono molti più cestisti, calciatori, tennisti, sciatori e via dicendo in –ić di quel che il numero di slavi del sud al mondo suggerirebbe. Mammasanta! quanto ci vuole a chiedere a uno Zvonimir o a un Siniša come si pronuncia il loro nome e segnarlo in redazione una volta e per sempre?

Ma voi immagino non siate “in voce” ogni giorno, ci sta che non vi siate presi la briga di chiamarmi per chiedermi una pronuncia. Allo stesso tempo, vi stufate di essere sempre nel dubbio davanti a intrichi di semivocali come Ljajic? Ecco il post scritto&sonoro che fa per voi!

La prima notizia positiva è che leggere il serbocroato è facillimo. Davvero. La regola è: trenta suoni, trenta simboli. La cattiva notizia è che questo vale solo quando il serbocroato è scritto con l’alfabeto cirillico (che non è un’altra lingua, ma solo un altro modo di traslitterazione!): ossia –oggi– solo in Serbia e altre repubbliche assurde tipo il Montenegro, credo (da nessuna parte si usa solo il cirillico, comunque: e giustamente).

Però con l’alfabeto latino il discorso non cambia molto. Sempre trenta suoni, sempre trenta lettere. Solo, qualche lettera è formata da due segni. Ecco, bravi: come gn sc e gl in italiano! Vedete che ci siete? Sapendo leggere le lettere, potete leggere tutto, perché poi non ci sono trabocchetti di sorta. L’unico dubbio potrà essere l’accento, ma voi anticipatelo il più possibile (ossia, fate l’esatto contrario di quel che fareste in italiano) e nove volte su dieci l’avrete detta bene. Pronti a sentire finalmente come si pronunciano quei segni strani? Via.

c, come calze, come reci! (di’ pure!)

č, come trapani (!), come čovjek (uomo)

ć, come ciuccio, come andrić (premio nobel!), come ćup (orcio)

dž, come džep, tasca

Update del giorno dopo: eureka! Grazie all’intuizione di Lucuqu (nei commenti, sotto) scopro e quindi consiglio il suono dr come lo direbbe un siciliano, per rendere . Un po’ come il Conte Džaaakula di AldoGiovanniGiacomo: potete ascoltarlo qui in versione 15″, al netto dei tuoni e fulmini la  si sente benissimo!

đ, come gioco, come đokovic (go, Nole, go!), come đak (alunno)

h, in teoria come hotel, come hvala (grazie), come hvar (la ibiza croata, e difatti non ci vado mai)

j, come juventus, come jaje (uovo), come Jarni (Robert, calciatore anni ’90)

š, come scemo ma molto più incavolato, come šuma (bosco)

z, come sbavare, come Zvonimir (lui, Boban)

ž, come želimir che desidera la pace ma evidentemente è nato nel paese sbagliato

Poi basta ricordare che Lj è come Gl italiano, e che Nj è come Gn. E che fanno una lettera unica, difatti il mio nome ha solo sei lettere anziché sette se scritto coll’alfabeto cirillico. Биљана. È una meraviglia, no?

La g è sempre dura, come in gatto (per la g dolce come gi e ge italiani c’è la đ!); così k suona sempre come in casa. Quindi liceo classico si scrive Gimnazija e si legge –più o meno– ghimnasia.

Ora sapete e potete leggere TUTTO. E pronunciarlo bene. Allora: via al test!

Jasmin Repeša, allenatore croato

Pelješac, penisola dalmata (l’audio è riciclato, era quello per @giuliabalugani)

Novak Djokovic (o –meglio– Đoković)

Ljuljačka, altalena

Alen BokšićRobert Prosinečki, ex iugocalciatori

Monica Seles, fu Monika Seleš

Biljana Prijić @biljaić

Tutto ciò è per scherzare, comunque. Per una trattazione seria e molto più piacevole dell’argomento seguite il tag o jeziku i tako dalje dell’inarrivabile Jadran. Se ho rotto gli indugi e mi sono messa a leggere testi lunghi nella prima lingua della mia vita, è del tutto merito suo. Puno puno hvala!

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L’Italia sono (anche) io

Ai Mondiali di atletica Dariya c’ha provato. Non è andata, ma competere con gente da 200 paesi non è facile, e la ragazza è giovane e si farà (e non ha per niente le spalle strette). Dariya parla con uno spiccato accento campano e indossa la divisa azzurra con l’eleganza e la forza del suo corpo tonico. Ci ha messo 12 anni per prendere la cittadinanza italiana, per essere “naturalizzata” (che espressione grottesca), uno meno di me (se ben ricordo: le odissee quando non diventano canti epici si tende a dimenticarle). Comunque un’eternità.

dariya_GQ

Dariya Derkach ritratta da GQ due anni fa, quando era ancora ucraina.

Per qualcuno 10 anni sono troppi, per altri troppo pochi. C’è chi dice che nascere su suolo italiano non deve contare ai fini della cittadinanza, chi ribatte che essere italiani mica è un fatto di sangue, è un fatto di cultura, di gusti, di abitudini. Ti piace la pizza? Bene. (Ma allora io sono spacciata.) Di posizioni sull’argomento se ne sentono tante, anche se non è proprio “da bar” come le vicende del magnate televisivo fu primo ministro. Ebbene, non ne avete un’idea. E invece dovreste, davvero.

Voi italiani (sì, ogni tanto me ne tiro fuori, e ogni tanto mi vien facile, quando voi mi date una grande mano) non state facendo alcun ragionamento collettivo utile su una questione ormai irrimandabile e delicata. Non ne sapete una mazza, probabilmente volete continuare così, e questi tristi mezzi d’informazione che ci ritroviamo (sì, “ci”, perché dalle sciagure non mi posso tirare fuori) non vi aiutano di sicuro. Ma è un lusso che non potete –più– permettervi. Non ce lo possiamo più permettere. Perché il mondo cambia e ti impone di stare da una parte o dall’altra. O di inventartene una terza, a patto che tu la sappia inventare.

Immaginate una situazione paradossale. Immaginate che a voi tutti, nati e cresciuti entro Chiasso e Lampedusa, non dessero automaticamente la cittadinanza. Immaginate che, sì, siete italiani e tutto, ma c’è un passaggio ulteriore, una specie di Riconferma che vi faccia passare da cittadino in nuce, provvisorio, a cittadino vero e proprio. Tipo a 16 anni, una età a caso.

Cosa chiedereste alle istituzioni? Cosa chiedereste a chi le governa e a chi le controlla, a tutti, perché possiate vivere serenamente la Riconferma? Potete pensarci un po’, se volete. Voglio dire, vi sentite italiani —siete italiani!— ed è giusto che possiate riflettere con calma sul documento che sancirà quello che già vi sentite —siete!— di fatto. Mi permetto di avanzare qualche ipotesi.

Chiedereste probabilmente criteri univoci chiari validi per tutti. Poco interpretabili, quindi (sai almeno una terzina dantesca a memoria sì o no?), comprensibili a chiunque abbia 15 anni (un anno per prepararsi ci vorrà, no?), applicabili senza scappatoie e senza distinzioni di provenienza regionale, censo, istruzione. Poi uno è tranquillo, no? Se il mazzo non è truccato e io ho in mano una scala reale sono ragionevolmente tranquillo, vero?

Usciamo un attimo dal paradosso e torniamo a noi. Italia anni ’90-2013. Il mazzo non è che sia truccato, eh. È solo che mancano delle carte. E ci sono due donne di picche, chissà perché. E un quattro di bastoni da un mazzo di triestine —quelle col numero— che rende difficile mescolare. Insomma, i criteri cambiano di riforma in riforma, di questura in questura, di provincia in regione. Alla mia famiglia capitò secoli fa di fare domanda di cittadinanza e di vedercela respinta perché dopo la nostra richiesta la legge aveva cambiato un certo criterio. La legge non era retroattiva, e un ricorso avrebbe forse cambiato gli eventi futuri. Ma del senno di poi…

E se i criteri della Riconferma non vi trovassero d’accordo? Cosa valutereste importante? Non vorreste forse conoscerli subito, una volta e per sempre? Almeno a grandi linee, voglio dire. Nelle cose che contano. Se devi saper cucinare almeno un tipo di pasta al forno ci puoi lavorare, ecco. Ma se devi dimostrare che i tuoi antenati risiedono in Italia dal 1700 potrebbe essere un po’ più complesso, magari: no? E poi forse potresti non voler vivere in un Paese che guarda l’albero genealogico indietro di 10 generazioni. Forse, eh. E poi: forse vorreste che queste linee guida fossero condivise. Da tutti, non solo dai quindicenni in coda per la Riconferma. Perché se no, come fai a discutere dell’assurdità del 1700?

Non avete la più pallida idea di come si diventi cittadini italiani, ammettetelo. Non sapete nemmeno perché si può diventare cittadini italiani. No, non c’entra la faccenda dello ius soli. Quella è per l’eventuale diritto di cittadinanza alla nascita. Io non sono nata in Italia, né ho sangue (?) italiano, eppure sono cittadina italiana. In tanti anni, dagli amici più cari a gente appena conosciuta a una cena o a un evento, centinaia di persone mi hanno fatto domande —talvolta assurde— su nazionalità, etnie (?), cittadinanza. E nello specifico sull’iter di cittadinanza italiana. Mostrando lacune che parevano voragini. Ebbene, lasciatevelo dire: non ve lo potete più permettere. Non ce lo possiamo più permettere.

Non possiamo più rimandare l’idea della società che vogliamo essere. Quella che dobbiamo costruire. La cittadinanza non è solo un pezzo di carta, è lo specchio del proprio livello di civiltà, della propria apertura. Compreso —e lo sottolineo con forza— l’iter che serve per arrivarci (è tutto chiaro? è tutto condiviso? il trattamento è uguale per tutti?).

Avete una idea della vostra Italia di domani e dopodomani? Se a voi la Riconferma non è mai stata chiesta perché nessuno ha mai messo in dubbio la vostra italianità, chiedetevi con chi —nuovo— vorreste condividerla. Deve sapere la lingua, l’altezza al garrese di Francesco Totti, deve distinguere pappardelle e fettuccine, conoscere la Costituzione? Essere cattolico, essere almeno cristiano? O per voi il sangue conta e un argentino che sa solo lo spagnolo ma ha tutti e quattro i nonni italiani è più italiano di me, per voi? Mica mi offendo, eh. Basta esser chiari. E, al momento, non lo si è.

Ottenere la cittadinanza italiana è un’odissea. Non c’è niente di certo, di logico, di condiviso. A parte i 10 anni di residenza coordinata e continuativa (co.co.re), devi dimostrare un reddito cospicuo che spesso manco i tuoi amici italiani da generazioni hanno (a proposito: questi nuovi italiani li volete bianchi caucasici e magari ricchi?), devi non cambiare città perché se no cambi questura ed è un casino, e soprattutto devi esser pronto a passare ore al telefono con un ufficio ministeriale per capire il destino della tua pratica.

La tendenza evidente del ministero è di respingere le domande. Lo sapevate, questo? Di base, provano a dirti di no. Poi se tu sei pervicace ai limiti dell’autolesionismo e insisti, rispondi, alleghi nuovi documenti che non erano mai stati citati prima, chiami, richiami, ti fai passare le crisi di pianto isterico, bestemmi il paese dove sei nato e quello dove vivi, maledici i nazionalismi e lo Stato nazione, smetti di accarezzare l’idea di tornare apolide, ricomponi il sorriso per parlare con l’ennesimo inutile funzionario, allora forse qualche speranza ce l’hai.

Ho chiesto la cittadinanza perché non potevo fare altrimenti. Ho passato anni a rispondere “non saprei” alla domanda “ma tu ti senti italiana?” per capire alla fine che non conta più nemmeno tanto. Non ha importanza se io mi sento italiana, io sono italiana (ho privilegiato due indicativi perché risultasse meglio il confronto: spero non me ne vorrete). Magari sono anche italiana, e del resto perché dovrei negare un altro pezzo di identità? Ma italiana lo sono, e tanto. Sarei italiana comunque, anche se non lo volessi. Ma questi sono fatti miei. La domanda è: che posizione avete voi davanti a queste situazioni?

Se credete che sia importante sentirsi italiani, va bene pure. Basta dirlo. Quando ho fatto domanda io non gliene fregava niente a nessuno. Ero pronta a fare tremila test di italiano, di cultura generale, di aspettare tre ore dopo mangiato per il bagno (anzi, no: quello no). Nessuno m’ha mai chiesto niente. —Perché vuoi prendere la cittadinanza? mi chiese un amico caro anni fa. —Mah, per comodità, ormai vivo qua da anni. —Non sono d’accordo! Per niente! Se proprio uno non è italiano di nascita, che almeno lo sia per sentimento. Ecco, questo mio amico ha una posizione che magari non condivido, ma almeno chiara e netta. Voi?

Le persone dall’identità plurima ci sono e sono in mezzo a noi. Facciamocene una ragione, e poi capiamo come comportarci nei loro confronti. Ne abbiamo facoltà. Solo, ricordate che le identità vere sono quelle che uno si sceglie, o quelle che alla fine accoglie come un dato di fatto (come io con la mia italianità). Le identità imposte o quelle negate creano sempre problemi. Fidatevi, lo so. Nulla è più pericoloso di quando ti dicono cosa sei o cosa non sei (vi ricordate “sei ebreo, non sei ariano”? quella roba là).

Essere razzisti è un lavoraccio. Credo non ci abbiate mai pensato, ma è così. Pensate al povero Hitler che si è dovuto arrampicare sui vetri per convincere il suo popolo che sì i rom e i sinti erano ariani, e di quelli puri dato che tendono a sposarsi tra loro, ma che la vita nomade aveva snaturato la loro arianità e quindi era giusto sterminarli assieme agli ebrei (semiti odiosi) e ai gay (ariani un po’ troppo allegri, si vede). E in Italia, gli esilaranti dibattiti sulla rivista La difesa della razza? Alcuni editorialisti fascisti razzisti l’avevano capito, che la questione del sangue era spinosa. E parlavano di una italianità che “si respira”, quindi culturale, tradurremmo noi con spirito antropologico. Ma qualcuno poi ricascava nella tentazione biologica (genetica, diremmo oggi), invocando la necessità di una pura discendenza da Cesare. Ma poi: mamma gli etruschi! Cosa farne del sangue di questo popolo antico dalle ignote origini? E se poi non sono indoeuropei e quindi nemmeno ariani? Poi i tedeschi ci schifano. E tutti gli invasori dell’Italia? Gli arabi (semiti!), i vichinghi, Francia Spagna purché se magna?

Quando frequentavo i forum del KuKluxKlan provavo quasi pena per loro. Non sapete che fatica difendere un’America bianca e cristiana in una nazione che ha sì praticato la segregazione razziale (?) fino a pochi decenni fa, ma che è nata dal miscuglio, dall’esplorazione e conquista anche violenta di territori sconfinati su cui gli unici detentori di veri diritti potrebbero essere semmai i nativi “pellerossa”. Perché frequentavo i forum del KuKluxKlan? Tranquilli. Per un laboratorio di Analisi semiotica del discorso razzista. Utilissimo. Mi ha lasciata con ancora più dubbi di quel che avessi, ma dubbi utili. Come del resto il corso di Relazioni internazionali del bravo prof. Luciano Bozzo (non sputiamo sempre sull’università italiana, santinumi: aiutiamo a tirar fuori le perle e a sbarazzarci di quelle false, semmai).

La Nazione non esiste, la Nazione si costruisce. È un dettaglio della dottrina politica che spesso sfugge. E i media, che confondono sempre Stato popolo Nazione Paese per la triste ossessione delle ripetizioni, perdono l’ennesima occasione per fare bene il loro dovere. In formula brevissima, un po’ approssimata ma bastevole. Un popolo (con la sua cultura abbastanza omogenea fatta di lingua tradizioni usi costumi) si identifica in una idea di Nazione, e quindi (di solito) rivendica uno Stato. Per dire, all’indomani dell’Unità d’Italia c’era lo Stato, ma la Nazione, dopo esser stata teorizzata da sparuti gruppi di filosofi politici ideologi, era ancora in costruzione. Io credo che dopo che s’è fatta l’Italia anche gli italiani son stati fatti. Ci son state due guerre mondiali, un ventennio indecente, una scuola pubblica nazionale e una televisione di Stato che hanno suggellato la nascita della Nazione.

Oggi la Nazione italiana è in crisi di identità. E non per colpa dei brutti ceffi che volevano inventare e costruire la Nazione padana; siete stati bravi a non dare alcuna chance a una teoria tanto bislacca. Si tratta invece della crisi di un Paese vecchio per anagrafe e per testa, che non prende posizione sulla sua identità, e quindi la difende in modo goffo e inefficiente. Perché ci sono dubbi sull’italianità di Balotelli? Diciamolo. Perché è nero. Facciamo che uno è italiano solo se bianco? Non sarò mai d’accordo, ma almeno lo sappiamo. (Poi però i figli dei matrimoni misti? Facciamo un biancometro come per i dentifrici whitening?) Che italiani volete essere? Che Italia vogliamo costruire?

A una che c’ha messo dodici anni per diventare italiana e farci vincere le medaglie, davvero volevate dirle di no?

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giringiri, mostovi

La Croazia migliore

Commissione Europea

Sulla facciata del palazzo della Commissione Europea.

Sono stata a Bruxelles per un esame e l’ho conosciuta. La Croazia migliore, quella che vorrei prevalesse, quella che mi va bene pure se indipendente, pure se pronta ad affrontare questo duro mondo con i suoi appena quattro milioni di cittadini, su per giù quelli della sola Emilia-Romagna.

La Croazia entrerà nell’Unione Europea il Primo Luglio, nel momento in cui più lasco che mai mi appare il legame tra gli Stati Membri (che maiuscole imperanti, che lessico eurocratese!). La crisi economica, di sistema, di valori e sentimenti, e di chissà cos’altro ancora morde sempre più forte e lascia gli eurocittadini scettici sui nuovi arrivati: Ma che entrate affare?

Eppure la Croazia migliore ha entusiasmo da vendere e ha il volto di Petra, che parla cinque lingue e ha pranzato con me al parco; di Hrvoje che ha il nome più impronunciabile del gruppo ma lavora a Slobodna Dalmacija, il quotidiano che si legge a casa mia da sempre; di Ana da Vienna che come me colleziona cittadinanze; di Ines che ha il nome meno croato ma a me più caro.

Mentre prendevamo dei caffè nei pressi della metro Schuman tra una prova e l’altra delle selezioni interminabili per lavorare all’Unione Europea, ho pensato da una parte che ciascuno di loro abbassa le mie chance di essere presa, ma dall’altra che tutto sommato non è affatto drammatico fallire essendo in concorrenza con giovani donne e uomini così preparati, così cordiali e sorridenti, così consapevoli di dove sono ma soprattutto di dove vogliono andare. Per questi croati speciali non sarà importante lavorare fuori o dentro la Croazia, ma farlo con la mente libera e aperta.

È stato bello parlare il mio croato dall’accento italiano a Bruxelles. È stato bello scoprire che tutti –tutti– hanno un rapporto molto sereno con il nostro comune iugopassato, tanto da scherzare bonariamente sui pionieri piccoli che tutti sono stati, sui “cugini” sloveni che sono già nell’Unione, e sui “cugini” serbi, bosniaci eccetera che forse un giorno chissà entreranno pure loro. Ammesso che quel giorno l’Unione sarà ancora unita, sia chiaro.

A volte mi pare che ci sia ben poco da festeggiare. E il Primo Luglio, come sempre, mi prenderà quel poco di nostalgia che accomuna molte noi anime slave. Tipo una saudade lusitana, ma meno fascinosa e più odorosa di cavolo cappuccio sott’aceto. Però lo so che non è più tempo di pensare a cosa sarebbe successo se (se niente guerra, se passaggio soft al capitalismo, se niente Oluja, se divorzio consensuale stile Cecoslovacchia, se…) ma che è ora già da un pezzo di lottare qui oggi e per molto tempo ancora per valori ancora deboli di solidarietà rispetto e cooperazione. Il nazionalismo non è pericoloso perché legato alla guerra civile, ma perché danneggia le generazioni che verranno e ostacola un sano sviluppo economico.

La nuova Croazia merita di avere una possibilità, e ha bisogno di una mano dall’Europa (non tanto e non solo dall’Unione Europea, ma dall’Europa proprio, con i suoi cittadini e la sua storia) per combattere le derive nazionaliste, omofobe, razziste, fondamentaliste che covano sotto la cenere, e per scrollarsi di dosso la corruzione imperante di una classe dirigente inadeguata e spesso responsabile in prima persona di ogni nefandezza durante il periodo bellico.

Sarà dura, durissima. Ma io penso a Petra, Hrvoje, Ana, Ines e agli altri ragazzi di Bruxelles e so che per lo meno l’armata del bene è pronta. Dobrodošla, Hrvatska! E mettiti “una coperta calda addosso”.

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