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La (mia e solo mia) grammatica di Twitter

Sono molto tollerante. Ho perso una patria intera per colpa dell’intolleranza. Sono quindi molto tollerante. Ma esigente. Ho una tielle selezionatissima. Leggo solo chi mi va. C’è chi scrive con meno cura di altri, e non mi dà (più di tanto) fastidio. Appunto, sono tollerante. E esigente. Soprattutto con me stessa.
Queste sono le regole che mi piace seguire, perché mi piace il risultato che danno. Mi sgrido (un po’) quando le disattendo per distrazione. Sono mie e solo mie. Non seguitele, per carità. E leggetele così, solo se vi va. (Anche perché le regole più belle di Twitter restano quelle di @dietnam di un post un po’ vecchiotto: le seguo ancora, anche se forse non le segue più nemmeno lui.)

1. Non calpestare le aiuole, e nemmeno l’italiano.

Oh. Nn scrv mai csi’, xke’ nn mi piace e mi dà fastidio vederlo scritto così. Anche se i caratteri son pochi, preferisco scrivere tutto per esteso e meglio che posso.

2. Trova il tuo punto fermo: elimina (o diminuisci drasticamente) i puntini di sospensione.

Possono essere piacevoli. Di rado. Mi dicono che Dovlatov ne usasse a profusione. Adoro Dovlatov (non sapete chi sia? dovreste!), ma non me n’ero mai accorta. Vanno usate con parsimonia. Specie da chi –come me– non è Dovlatov.

3. Le emozioni si possono anche scrivere. Quando puoi, lascia le emoticon fuori. Ma soprattutto fuori dalla parentesi.

https://twitter.com/jetpack/status/281055211307556865Adoro quando le persone belle dicono “sospiro” o cose così. Tipo @antogasp. Sopporto senza problemi quando le persone belle fanno una crasi tra emoticon e parentesi (per intenderci, una cosa come questo sorriso :) ma non mi piace per niente e non lo faccio mai mai. Lo fa @gluca ma a lui perdono un sacco di usi.

4. Quando tuitti fai dei tweet, ma pure dei tuit. Non guardo la tivvù (né la tv), ma amo la mia tielle pure quando guarda in massa sanromolo.

Applico a twitter le regole che seguo per le parole straniere in italiano. Si scrivono dei tweet, mai dei tweets (voi eleggereste mai delle misses Italia? andreste a vedere dei films?). Però dalla mia following spagnola @sgambarte ho imparato tuit che trovo bellissimo (gli spagnoli dicono anche ordenador, ma sono più simpatici dei francesi che usano ordinateur: chissà perché). Con tuit compongo le parole declinate o coniugate: insomma, tuittare mi suona meglio di tweettare o twittare. La tielle (ossia la TL ossia la timeline) è invece un vezzo da semiabruzzese: in lingua locale vuol dire “pirofile” da forno e mi fa tanto ridere.

5. Il retuit/retweet è condivisione hic et nunc, la stellina è “me lo salvo per sempre”.

Anche questa “regola” (ma per me è più una consuetudine che trovo comoda) l’ho presa da uno tra i miei primi following: secondo me fa ancora così pure lui. Amo tanto quando qualcuno stellina una mia risposta affettuosa per farmi capire che l’ha letta e apprezzata. Ma io non lo faccio mai. Al massimo, rispondo anche solo con un sorriso (pure emoticon, eh: talora sono tollerante anche con me stessa). Insomma, non ho sposato la recente evoluzione “stellina = like”.
Così le mie stelline restano una sorta di antologia che posso rileggere quando voglio. Se volete, la “raccolta di fiori” è qua.

6. Non ti seguo (scusa ma sono già a 299).

Non sono una oltranzista della tielle leggera. Chi vuole seguire solo 75 profili, lo faccia. A me non bastano, c’è troppa gente al di là e al di qua dell’Adriatico che pensa bene, scrive bene e mi tiene compagnia. Perché c’è un limite fisiologico per ciascuno, e il mio s’aggira sulle 300 persone. Quindi di norma non ne seguo più di 299, e quando sono su quella soglia evito di aggiungerne senza prima dire addio a qualcuno che non tuitta più così bene come un tempo.

7. La lettura può attendere (ovvero, la compresenza di desktop e smartphone).

Di giorno non ho tempo per leggere tutti i tuit di tutti i miei following. Di notte neppure. Però sono insonne da sempre e ogni tanto ci riesco. Ma anche se non la leggo tutta, gran parte della mia tielle la recupero la sera, dal telefono. Quindi mi capita di scorrere alcuni tuit di giorno dal computer nelle pause di lavoro, e magari rispondere anche a delle sollecitazioni. Alcune discussioni in corso le vedo ma non le capisco, non avendo il tempo di approfondire. Poi la sera recupero più che posso grazie a Tweetbot sul telefono che resta a dove l’avevo lasciato la sera prima (quindi mi risultano sempre da leggere circa 999 tuit). È una follia, lo so. Ma lo faccio solo perché mi va, non è una imposizione. Anzi, è una specie di rito che quasi concilia il sonno. Ed è tanto buffo capire finalmente alcune discussioni che m’erano risultate criptiche durante il giorno, tra un budget e un esecutivo per la stampa.

8. Chi mi ama mi segua (e non pretenda che sia viceversa).

Monitoro i miei follower senza morbosità. Sono contenta che esistano, sono onorata che interagiscano con me spesso. Leggo sempre le bio dei nuovi follower (anche queste è una cortesia carina che ho coniato da altri). Ma non ricambio mai il follow in automatico. Non mi pare corretto. Twitter non è un social biunivoco e paritario. È asimmetrico, e questo è il suo bello. Alcuni miei following preferiti, per esempio, non sono follower (ossia, non mi seguono). Me ne faccio una ragione e continuo a seguirli.
Ho fatto un’unica eccezione. Ma come potevo continuare a resistere alla corte tuitteriana di @beppe142?

9. Magari i TT sono utili. Ma (mi) annoiano. Indi per cui sono inutili (per me).

Lo so che li amate, che vi manda in estasi “mandare” un argomento o hashtag in TT. Ma a me non frega niente. Da anni tengo i TT impostati su worldwide e non su Italia perché preferisco ignorare gli abissi di ignoranza dei miei conterranei. Non guardo mai mai i TT, ignoro i vostri tuit in cui parlare di TT, non contribuisco se non per puro caso a niente che sia connesso ai TT. Punto.

10. Un dogma è per sempre, una regola di Twitter è per il tempo che serve.

Poche esperienze al mondo sono più soddisfacenti che rompere le regole. Soprattutto se proprie. Essere (un po’) indulgenti con se stessi è indispensabile. Quindi questo decalogo è in evoluzione con brio. Anche perché è Twitter stesso che cambia, è la Rete che evolve, siamo noi che la usiamo sempre con modi nuovi e più consapevoli, per fortuna.

 

Mi sono ricordata tempo fa che avevo iniziato a scrivere su Twitter (orrore: in terza persona!) perché su Facebook scrivevo solo in inglese (oltre la metà dei miei contatti non parlava italiano) e mi mancava scherzare con la lingua che conosco meglio e uso di più. Non tutti i mali brutti blu vengono per nuocere.

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giringiri, mostovi

La Croazia migliore

Commissione Europea

Sulla facciata del palazzo della Commissione Europea.

Sono stata a Bruxelles per un esame e l’ho conosciuta. La Croazia migliore, quella che vorrei prevalesse, quella che mi va bene pure se indipendente, pure se pronta ad affrontare questo duro mondo con i suoi appena quattro milioni di cittadini, su per giù quelli della sola Emilia-Romagna.

La Croazia entrerà nell’Unione Europea il Primo Luglio, nel momento in cui più lasco che mai mi appare il legame tra gli Stati Membri (che maiuscole imperanti, che lessico eurocratese!). La crisi economica, di sistema, di valori e sentimenti, e di chissà cos’altro ancora morde sempre più forte e lascia gli eurocittadini scettici sui nuovi arrivati: Ma che entrate affare?

Eppure la Croazia migliore ha entusiasmo da vendere e ha il volto di Petra, che parla cinque lingue e ha pranzato con me al parco; di Hrvoje che ha il nome più impronunciabile del gruppo ma lavora a Slobodna Dalmacija, il quotidiano che si legge a casa mia da sempre; di Ana da Vienna che come me colleziona cittadinanze; di Ines che ha il nome meno croato ma a me più caro.

Mentre prendevamo dei caffè nei pressi della metro Schuman tra una prova e l’altra delle selezioni interminabili per lavorare all’Unione Europea, ho pensato da una parte che ciascuno di loro abbassa le mie chance di essere presa, ma dall’altra che tutto sommato non è affatto drammatico fallire essendo in concorrenza con giovani donne e uomini così preparati, così cordiali e sorridenti, così consapevoli di dove sono ma soprattutto di dove vogliono andare. Per questi croati speciali non sarà importante lavorare fuori o dentro la Croazia, ma farlo con la mente libera e aperta.

È stato bello parlare il mio croato dall’accento italiano a Bruxelles. È stato bello scoprire che tutti –tutti– hanno un rapporto molto sereno con il nostro comune iugopassato, tanto da scherzare bonariamente sui pionieri piccoli che tutti sono stati, sui “cugini” sloveni che sono già nell’Unione, e sui “cugini” serbi, bosniaci eccetera che forse un giorno chissà entreranno pure loro. Ammesso che quel giorno l’Unione sarà ancora unita, sia chiaro.

A volte mi pare che ci sia ben poco da festeggiare. E il Primo Luglio, come sempre, mi prenderà quel poco di nostalgia che accomuna molte noi anime slave. Tipo una saudade lusitana, ma meno fascinosa e più odorosa di cavolo cappuccio sott’aceto. Però lo so che non è più tempo di pensare a cosa sarebbe successo se (se niente guerra, se passaggio soft al capitalismo, se niente Oluja, se divorzio consensuale stile Cecoslovacchia, se…) ma che è ora già da un pezzo di lottare qui oggi e per molto tempo ancora per valori ancora deboli di solidarietà rispetto e cooperazione. Il nazionalismo non è pericoloso perché legato alla guerra civile, ma perché danneggia le generazioni che verranno e ostacola un sano sviluppo economico.

La nuova Croazia merita di avere una possibilità, e ha bisogno di una mano dall’Europa (non tanto e non solo dall’Unione Europea, ma dall’Europa proprio, con i suoi cittadini e la sua storia) per combattere le derive nazionaliste, omofobe, razziste, fondamentaliste che covano sotto la cenere, e per scrollarsi di dosso la corruzione imperante di una classe dirigente inadeguata e spesso responsabile in prima persona di ogni nefandezza durante il periodo bellico.

Sarà dura, durissima. Ma io penso a Petra, Hrvoje, Ana, Ines e agli altri ragazzi di Bruxelles e so che per lo meno l’armata del bene è pronta. Dobrodošla, Hrvatska! E mettiti “una coperta calda addosso”.

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giringiri

Lance libere a bomba contro l’ingiustizia

La mia passione per i badge ha del patologico: stavo evitando fosse sciupato dal costume bagnato. | Foto di @annetta80

Sono tornata al Freelancecamp. Sono tornata dal Freelancecamp. Un evento di altissima qualità e ad altissimo comfort. In cui il tasso di Quanto sei freelance? non si misura in partita IVA, perché è più una condizione esistenziale, trasversale alle generazioni e alle professioni: non siamo precari, siamo i pionieri di oggi. Elenco qui (con un eloquente rapporto di 5:1) quel che ho amato e quel che mi è dispiaciuto del Freelancecamp 2013, aspettando l’edizione 2014, ma anche il Romagnacamp di settembre (però: una quasiemiliana come me è tollerata?).

Mi è piaciuto del Freelancecamp:

Jedan. Lo speech con i capelli bagnati (ma non ditelo a mia mamma), in prendisole col costume sotto, e a piedi nudi.

Dva. L’alta qualità e l’incredibile varietà degli interventi. Il fisco del commercialista in incognito, la voglia di creatività di @decarola, le riflessioni sulla grande azienda di @spottino

Tri. Il gadget della crisi (e della resistenza alla crisi): le “mutande” di Simplycris, che però l’anno prossimo deve venire di persona a raccontarci un po’.

Četri. Lo storify a distanza di @etino fatto addirittura prima che l’evento fosse finito (da procrastinatrice perenne l’avrei fatto non prima di un mese dopo: quindi grazie!)

Pet. Il popo di @robyzante nella sua pancia: auguri a una donna straordinaria dalle inesauribili energie, tutte positive.

Šest. La logistica perfetta mia e di @alicebrignani per arrivare a Marina Romea alle 9,29 del primo giorno.

Sedam. Un invito a Torino da @maricler che non vedo l’ora di onorare.

Osam. L’ironia nascosta dietro la riservatezza di @samskeyti79, che da supertecnico ha spiegato i servizi di cloud molto meglio di tanti “divulgatori”.

https://twitter.com/jetpack/status/341505445678153730

Devet. L’ospitalità di @beppe142 e @annetta80 (Beppe, il sushi a Bo quando vuoi!).

Deset. Arrivare al Boca al mattino, fare subito una nuotata in visibilio e tutti a chiedere Ma hai già fatto il bagno?!

Jedanaest. La complicità senza soluzione di continuità tra freelance, piccoli imprenditori come @nicbonora e @marcobrambilla, e una cooperatrice come me (che sono piccola imprenditrice e libera professionista, e pure precaria ma confermo @mafedebaggis che si può vivere serenamente uguale).

Dvanaest. La passeggiatina nella palude al tramonto tra nugoli di zanzare belli unti di vape erbal.

Trinaest. Le battute di @gallizio, nonostante l’imbarazzo dovuto all’impossibile repressione delle risate (ci ho provato, giuro: e ci sto lavorando su).

Četrnaest. La consapevolezza condivisa che grammar matters (ma non c’era alcun borioso grammarnazi in vista).

Petnaest. La mia nuova sacra (ma laica) trimurti, con un Hvala! grande da qui a lì.

Non mi è piaciuto del Freelancecamp:

A. Non poter parlare con tutti, almeno due parole, almeno “Bello il tuo intervento, interessante la tua domanda”.

Be. Aver dimenticato un costume al Boca, che fessa.

Ce. Il mio intervento, che poteva uscire meglio. Ma attribuisco tutta la colpa all’eccessiva beltà delle altre presentazioni, quindi va bene così.

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Eponimie

Volevo che questo spazio avesse un titolo corto e un sottotitolo lungo. Così è. E il titolo NON è più in inglese.
Allora l’ho spiegato in questa pagina che non è un post ma una pagina. Ché le pagine in questo layout sono in alto cliccando su quella inconcina con tre righe. | La foto è mia, niente di che come foto. Però Parigi è Parigi. E i ponti sono ponti.

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Eponimie

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giringiri, smancerie

Figli e figliocci

Caro Piero,

ti diranno forse che vivi nella città più bella del mondo, ma sarà anche il posto dove ti chiameranno Pierò per sempre, fattene una ragione. Però a me è una vita che mi chiamano Biliàna, e sono sopravvissuta. Non è poi così male.

Sei nato da nemmeno ventiquattr’ore e ancora non mi sembra vero. Ero tanto contenta di vedere la tua mamma col pancione, non ci speravo quasi più. Ma averti visto –fuori programma– nelle prime ore della tua vita è stato il più bel regalo che potessi immaginare. Quindi grazie, di cuore.

Pesi poco più di tre chili e mezzo, sei lungo mezzo metro di tenerezza, e hai tanti capelli, proprio come l’ecografia aveva predetto. La tua mamma è radiosa, sembra che fosse pronta da sempre ad accoglierti, tuo papà è emozionato ma anche divertito dalle tue mille smorfiette e dai tuoi ministarnuti improvvisi (salute!).

Mi trovavo in queste aree francofone per un esame difficile, che è andato bene ma non so se abbastanza bene, lo saprò che tu sarai già cambiato un sacco, ci scommetto. Cambiate quasi a vista d’occhio, voi rospetti che spuntate fuori da corpi che mai diresti possano trasformarvi da girini in principi dagli occhi azzurri in qualche mese. E invece sì.

Sei nato che fuori Parigi era come Parigi raramente è. C’era un sole bello e il cielo terso, e la Senna scorreva gioiosa a pochi passi dal tuo ospedale, che ho lasciato ieri che ancora eri lì dentro al caldo, ma avevamo già capito che avevi voglia di vederci tutti e respirare questi profumi insoliti. Forse sei un novelty seeker pure tu, che ne sai? Magari pure a te non sembrerà mai di averne abbastanza, di questo mondo così sempre diverso e sorprendente.

Se le cattiverie e le brutture sono un prezzo da pagare per avere tante scoperte a portata di mano, caro Pierò, forse ne vale comunque la pena. Ci pensavo oggi attraversando questa metropoli da parte a parte per venire a vederti. Tante persone diverse sotto lo stesso cielo, tante storie e facce e credenze e stili, modi di vestire e pensare. Sono carini i tuoi concittadini. Un po’ stressati e frettolosi, ma carini, con un sacco di bambini da portare al parco e grandi borse per portarsi appresso un po’ del loro mondo in metropolitana.

Una volta –prima che tu fossi girino– tua mamma aveva scherzato dicendo Sarà senza dubbio uno zuccone che odia leggere e io mi dispererò. (Scherzava, eh.) Non so come sarai. Però ti auguro che potrai essere come vorrai. Non ho aspettative su di te. Non spero che ti piaccia la montagna, anche se sarebbe bello arrivare al Lago di Pilato un giorno assieme; né che diventi astronauta o chef stellato. Spero tanto che potrai essere un bambino sereno, con un’infanzia piena e goduta giorno per giorno, attimo dopo attimo. Spero –egoisticamente e mi scuso– di poterti vedere qualche volta all’anno, anche se siamo lontani e anche se sono così capra da non sapere una parola di francese. Ma tu mi aiuterai, vero?

Ti auguro di crescere impegnato e responsabile, ma di buon carattere e positivo, perché ci pensa già il mondo attorno a essere piuttosto negativo, talvolta, e acido come la crème fraîche.

Ho assistito all’incontro dei tuoi genitori (senza accorgermi, fessacchiotta, che era stato amore a prima vista), ho celebrato le loro nozze con il tricolore sul petto e una piuma bianca in testa (sulla piuma chiedi chiarimenti a tuo papà), e poi ero loro tra i piedi quando tra una contrazione e l’altra c’erano solo quattro minuti, ed è stato chiaro che non si trattava di un falso allarme. Insomma, sono stata un cupido petulante e invadente senza volerlo. Però è tutto nato da tanto amore che provo per i tuoi genitori, e ora anche per te.

Perché ti amo da quando ho saputo che c’eri, nascosto nel suo corpicino flessuoso e luminoso: nonostante tutte le difficoltà e la fatica e le paure. Benvenuto Piero, con l’accento.

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Parto per un compito difficile. Sono contenta. Sono tranquilla, anche. Sono pronta: sono quasi pronta. Mi pare di non meritare il sostegno, l’incoraggiamento, l’affetto di chi mi sostiene, mi incoraggia, mi ama. Tutto ciò è forse immeritato, ma molto commovente.
La foto è della @biljaic di un anno quasi esatto fa.

fotine, giringiri

Prekosutra

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