smancerie

Quello che amo di noi, e degli altri noi

Amo gli italiani

Quando parlano di cibo mentre mangiano, e possono andare avanti per ore.

Quando interpretano con ragionevole flessibilità certe regole, e ti dicono comprensivi E che sarà mai! oppure Per tanto poco! o ancora Fossero questi i problemi!

Quando enumerano tutti i modi in cui si dice “gomma da masticare” o “strofinaccio da cucina” o “marinare la scuola” lungo la penisola (e nelle isole, certo).

Quando dicono che già a cinque chilometri si parla un dialetto sensibilmente diverso dal loro.

Mi guardano diffidenti alla mia convinta derisione della regola Bagno solo dopo tre ore, perché certi divieti ti entrano nella pelle come dopo un pasto troppo agliato.

Lamentano d’esser ostaggi del vaticano, ma poi tutti sono battezzati comunionati cresimati, pur confondendo l’Immacolata concezione con l’oggetto dell’Annunciazione.

Quando bevendo un espresso scadente commentano “A ‘sto punto mille volte meglio il caffè che mi faccio con la moka di casa!”.

 

Amo i miei iugopopoli

Quando mangiano qualcosa col cucchiaio e poi satolli di gulaš o zuppe varie esclamano Ah, non c’è niente di meglio che mangiare col cucchiaio!

Guardano lo sport, quasi ogni sport, tutti gli sport che a me piacciono, e ne parlano come fosse in quel momento questione di vita o di morte.

Quando usano per “mano” e “braccio” la stessa parola —ruka— ma poi per dire “mangiare chicchi d’uva” si bullano di potersi servire di un unico verbo apposito: zobljati.

Fingono di sapere qualcosa della religione cui dicono di appartenere, senza sapere nulla della spinosa questione detta filioque (né ovviamente che fosse un pretesto bello e buono per lo scisma).

Si scannano tra di loro da oltre vent’anni, ma poi parlano “na naški”, la “nostra” lingua.

Quando bevendo un espresso scadente commentano “A ‘sto punto mille volte meglio il caffè turco che mi faccio con la cuccuma a casa!”.

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Quello che ho imparato quest’anno

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Settembre is the real Capodanno. A me settembre mette una malinconia pazzesca. E difatti non ho mai fatto né farò ora propositi. Ma è stato un anno lunghissimo. Un anno inteso da settembre a settembre. Mi è successo di tutto, ma non ho voglia di parlarne ora. Quello che voglio raccontare —e già ne avevo voglia da un po’— è cosa e soprattutto come ho imparato. Tante volte la vita mi sorprende. Quelle volte è bellissimo.

Sono tutta gialla

Al primo Freelancecamp a cui ho partecipato (che era poi il primo in assoluto), l’energia di Roberta Zantedeschi mi aveva colpito come una secchiata d’acqua gelata in faccia (io adoro l’acqua fredda). Ci aveva parlato di colori che riescono a descrivere come stai al mondo (e come stai al lavoro), e ne ero stata affascinata. Ma non ero certa che fare un percorso di quel tipo potesse servirmi a qualcosa. Ebbene, i miei dubbi erano infondati. Presa da un’insolita intraprendenza (si vede che ne avevo davvero bisogno) ho chiamato Roberta dicendole più o meno Credo di voler comprare una tua consulenza. Senza minimamente insistere —anzi, accertandosi più volte d’aver capito di che avessi bisogno— mi ha spiegato il funzionamento, il costo, i risultati che avrei avuto. Neanche così ero certa di quello che stavo comprando, ma mi sembrava che lo scopo dichiarato (saperne un po’ di più di se stessi) facesse proprio al caso mio. Ho risposto a un questionario lunghissimo, seguendo l’istinto, il sentimento e un po’ di ragione. Dopo qualche giorno ho ricevuto un report, in italiano e in inglese (all’estero questi dossier sono ben valutati in fase di selezione) e già ero stupefatta dell’esattezza di certe descrizioni e della profondità e utilità di certe analisi. Ma il valore maggiore l’ho colto nel colloquio di restituzione con Roberta e Andrea, che sono di una bravura stellare, e assieme fanno faville. Non ho concordato –ovviamente– queste righe con nessuno dei due, né li ho avvisati che ne avrei scritto. Se sentite di aver bisogno di capire meglio come agite sul lavoro e quali sono i vostri punti di forza, un’occhiata a Pakarangi io la darei. Poi mi direte di che colore siete, e se andate d’accordo con i gialli… ;)

Scriv(iam)o a mano

Quando ho sentito la prima volta dell’esistenza di #scriviamoamano ho pensato Che stronzata radical chic! (Papà, lo so che non sta bene usare le parolacce, ma è per fedeltà di cronaca: mi perdoni?) Poi siccome ne hanno parlato benissimo persone con cui condivido tanti giudizi sul mondo (Alessandra in primis), mi sono presa un giorno dal lavoro (non pagato), mi sono iscritta alla prima data bolognese disponibile (pagando) e mi sono regalata una delle giornate formative più belle di sempre. Ora, non so se proprio tutti potrebbero restare fulminati sulla via di damasco della ri-scrittura, ma se vi siete sempre chiesti per quale assurdo motivo alle elementari ci insegnassero a fare la a con un cerchio aggiungendoci però una zampetta davanti “affinché non cascasse” (?!) questo è il corso che fa per voi. Io che scrivo a mano da sempre e non ho mai smesso (prevalentemente tenendo un diario sconclusionato dal 1992 che per di più ha un nome proprio), ho re-imparato a scrivere, trovando finalmente una logica e una deliziosa efficienza nella mia scrittura a mano, che si è fatta più “scientifica” ma restando appunto “mia”. È il regalo più bello che la bravissima Monica Dengo potesse farmi. Di questo corso magnifico aveva già ottimamente scritto Roberta, quindi la chiudo qui, e vado a comprare l’inchiostro per la stilografica e qualche pennarello giapponese…

 

Lasciarsi bene è quasi più importante che trovarsi (autocit.)

Qualcuno potrà pensare che io sia esagerata quando parlo della fortuna sfacciata che ho nel conoscere persone splendide e molto migliori di me. Qualcuno sbaglia. E mai come quest’anno gli amici tra i più cari che ho hanno dimostrato di essere persino migliori di come io li ritenessi, eventualità che quasi non credevo possibile. Lo han fatto perdonandosi a vicenda, e perdonando in primis se stessi. Lasciarsi è sempre dura. A me è capitato in ambito professionale, e forse non avrei gestito con più lucidità di quel che potessi sperare questo faticoso processo, se non avessi seguito quasi contemporaneamente le loro vicende intrise degli stessi sentimenti contrastanti: ammissioni, cambiamenti, indisponenza, commozione, ira, analisi, comprensione, perdono. La vita professionale e quella personale sono oggi così connesse che magari le distingui, ma poi i sentimenti che le governano finiscono per assomigliarsi tremendamente. Col vantaggio però di poter imparare la lezione nell’una e trasferirla all’altra, e viceversa.

La perfezione non esiste, e il web è panta rei

Sono così fortunata che una mattina ero all’Archiginnasio (che già è una gran bazza) e contemporaneamente ascoltavo le parole alate di Miriam, che è una formatrice brava e pacata. Col suo sorriso disarmante a un certo punto fa “Non vi sto certo suggerendo di fare pasticci, ma ricordate che sul web almeno non si ha l’ansia del Visto si stampi, e si possono fare piccole migliorie man mano; ergo: non procrastinate, fate!”. Ora, io non sono per niente perfezionista. Però sono spesso non abbastanza soddisfatta di me, compresi i miei scritti. E mi tengo i post in bozza per un tempo irragionevolmente lungo. Quando capita, penso al sorriso di Miriam, chiudo e pubblico.

 

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bloggheggiando

Acqua fresca

Warning: post acido (ma c’è pure tanto amore)

Ne parlo perché ne ho una giocosa occasione. Però —concedetemelo— di norma non ne parlo, perché appena apro bocca su argomenti siffatti quel che ne esce è solo un poderoso e sincero sbadiglio.

Le polemiche mi interessano poco da sempre, e così quelli che si lamentano di quelli che si crucciano di quelli che si lagnano della campagna #IceBucketChallenge mi interessano meno di zero.
Però, certo, gli interrogativi sull’opportunità, l’etica e l’efficacia della campagna restano, e sono invece di notevole interesse, personale per ciascuno abbia a cuore la ricerca medico-scientifica, e pubblico per la ricaduta sulla società.

Ho letto riflessioni lucide, analisi profonde o considerazioni fulminanti (in genere su Twitter).

Come sempre, nel calderone della polemica che aggrava la mia già cattiva occlusione mandibolare per eccesso di sbadigli, si mescolano anche acume e valore civico, tra l’altro perfettamente distinguibili, basta selezionare i propri canali e abbassare al minimo il rumore di fondo. Non è difficile. Se ce la faccio io che sono fessacchiotta e anche un po’ pigra, tutti ci possono riuscire.

E invece Michele Serra non ci riesce, e non perché non ci prova. Ma perché non ne avrebbe nemmeno bisogno. Dice di non essere sui social (no, lui parla di “sommo piacere dell’assenza” confermandoci che l’elzeviro vive e lotta in mezzo a noi), ma poi sa tutto su questo “autogavettone benefico” e sul “coro di suocere in servizio permanente” che avrebbe l’ardire di criticare il chi e il come, fino a ridurre “il web” (coll’articolo determinativo) in un amplificatore di “lavate di capo”.

Ora, Serra scrive da una vita e lo sa fare con grande maestria, ma quel che mi chiedo io è: Ma lui che ne sa? Perché, se lì dentro non c’è, si sente in dovere di parlarne dondolante appeso tra due alberi? Se “il web” è tanto esecrabile, perché mai il suo giornale di giornalista (il mio ex giornale di lettrice) riempie paginate e paginate delle peggiorni scemenze de “il web”, dei gattini che lo commuovono, dei video che lo scandalizzano (che permaloso, questo “il web”), delle fotogallery che ne fanno il giro?

La polemica di Serra è poca cosa di per sé (Alla gggente non gli va mai bene niente e criticano pure la beneficienza? Ma va?!), ma diventa ancor più irritante perché arriva da chi non sa di cosa parla, con una supponenza che in altre epoche mai avrebbe perdonato a certi interlocutori tromboni.

Quindi se la mia amatissima amica Alice condivide l’Amaca io non posso fare a meno di pensare che vale molto più un suo qualsiasi post sul neonato blog (prepararsi all’Opera, per citare l’ultimo, delizioso) di mille Amache reazionarie che nulla ci possono spiegare perché nulla hanno indagato mai su “il web”, godendo per autonoma ammissione di “sommo piacere dell’assenza” a cui non possiamo che rispondere: #esgc.

Alla fine mi sono fatta la mia doccia gelata (confesso, adoro fare le docce fredde: non è stato un grande sforzo), e questo post non aggiunge niente di intelligente a quanto è stato scritto sull’argomento da chi ha saputo farlo meglio. Quello che è certo –per me– è che su “il web” c’è nelle nicchie giuste un senso di responsabilità e di approfondimento maggiore che in tante stanze dei bottoni e in redazioni (che immagino polverose) di giornali che hanno insegnato a tutti noi (o almeno a me) a leggere, ma che non hanno da un pezzo più niente da dire.

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