téchne

7 punti per cui Tangible.is good (e il ciabattino ha sempre le scarpe rotte)

Ho dovuto dire addio a un mio fornitore amatissimo. In una occasione normale la circostanza mi avrebbe spezzato il cuore, perché mi pesa lasciare i fornitori bravi. Ma in questo caso l’occasione era speciale: il fornitore ha cambiato pelle. Quindi ho detto addio a un bel bruco per salutare una meravigliosa farfalla.

Fatti e istruzioni:

  • GNV&Partners diventa Tangible dopo un lungo percorso di rebranding
  • Se li conosce(va)te, leggete pure ma poi fatevelo raccontare anche da loro, il percorso
  • Se non li conosce(va)te beati voi: avete la fortuna di conoscerli ora! Sbirciate almeno in velocità il loro sito dopo (o meglio prima) di aver letto qui

Le mie impressioni

1. Un nome internazionale ma di derivazione latina. Concreto e quasi sinestesico

Tangible in quanto parola è una promessa (saremo tangibili, pare dire). E quindi è un progetto in sé, che è quello che fanno i professionisti di Tangible. E ha questo suono a raffica che promette idee, scambi, confronti.

2. Fatto a mano per parlare di esperienze digitali: dai post-it ai bit

Commovente che chi lavora oggi prevalentemente col computer sia cultore della calligrafia e della bellezza della scrittura a mano. Del resto io ho scoperto #scriviamoamano grazie a una regina del web come Alessandra. Il logo di Tangible è bello senza strafare, netto ma con le meravigliose imprecisioni del tratto a mano, preludio degli sketch imperfetti ma utilissimi che userete se avrete la fortuna di lavorare con questo team.

3. Magenta GNV ma immerso in colori che lo riequilibrano con garbo

Rebranding vuol dire non ripartire da zero (Ricomincio da tre, direbbe Troisi: e in comunicazione vale sempre, ché non si butta via niente). Di GNV&Partners è stato mantenuto un colore così caro ai graphic designer come il magenta, perché è un po’ materia prima (in quanto colore base) e un po’ già manufatto (in quanto dotato di personalità e –come dice Nicolò– molto “umano”).

4. Carattere anche con un carattere neutro: la rivincita del bastone

Con un logo così, la scelta del set tipografico è ardua. Approvo la volontà di non “sbocciare” come si dice a Bologna. E ammiro la capacità di selezionare in ogni caso un carattere pulito ma riconoscibile, che a ogni navigazione sul sito sento sempre più come “ah, sì: la font di Tangible”.

5. Da desktop bellissimo, da mobile te ne innamori

Il brand new brand immerso nel suo ambiente naturale funziona a meraviglia. Ho letto tutti i testi manco dovessi fare proofreading (che ho fatto, ma i refusi si lavano in privato). Mi piace l’esattezza delle frasi che hanno usato, non una di più, e certamente non una di meno. Questa stesso pezzo che state leggendo si compone di un sacco di parole inutili che avrei potuto e dovuto tagliare. Scrivo sempre troppo di getto e poco con struttura. Nel sito di Tangible no.

6. Foto facce figure… in delizioso equilibrio

So bene quanto sia difficile raccontarsi come agenzia / società di consulenza. Il B2B è una fregatura da questo punto di vista. Vendere la nutella è facile, vendere la ditta (“ditta” ♥) che trasporta la nutella è difficile. Vendere post-it è facile, vendere gente bravissima che usa post-it per lavorare è difficile. Ma se chiami un fotografo per uno shooting comediocomanda e non ti vergogni di qualche faccia buffa o posa insolita, materiale per dare pepe al sito ne hai. E poi ci sono le animazioni, gli schemini: belli e mai superflui. Resta vera una cosa: per quando bello sia il loro sito, i siti che fanno per gli altri lo sono di più. Ah, i ciabattini.

7. E infine, chicca: una url da bacetti

Ma quanto siete bravi quando fate lo sforzo di non fare la scelta più ovvia, e di non perdere l’occasione per fare anche di un dettaglio un pezzo di identità? L’estensione .is mi permette di fare il titolo di questo post, ma consente anche mille giochi di senso su Tangible is… Un’altra promessa, proprio come il nome.

  • Ho scritto questo post per Medium ma si trova anche qua perché POSSE.
  • Questo post è stato scritto con un vecchio iPad sull’app di Medium e pensato per Medium dove vorrei scrivere non troppo saltuariamente di robe di lavoro & dintorni.
  • Questo post non è una marchetta nel senso che non mi hanno pagato. Del resto sono io che pago loro. Soldi ben spesi.
  • Addio bruco giennevì, sai che ti chiamavano anche giennevù? Benvenuto Tangible, benvenuta consapevolezza.
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téchne

www mi piaci tu, nuovo Internazionale

Sono stata, anche quest’anno, a Internazionale a Ferrara. Sono rimasta incantata dalla presentazione del loro nuovo sito, e vi dico perché per me dovrebbe piacervi.

È bellissimo. Come il suo giornale, del resto. Come il logo di Internazionale, ridisegnato apposta per il lancio del sito web. Una sola font, Lyon come la città francese, per tutti i testi, dai titoli agli occhielli, dal corpo dell’articolo su carta a ogni sezione del web, senza soluzione di continuità.

È un progetto progettato. Voglio dire, davvero. Con un inizio, un lancio, una evoluzione (già prevista) di circa tre anni, step intermedi. E misurazioni, valutazioni, scelte, scommesse (il reportage! l’eliminazione dei commenti! la scomparsa dei contatori di tuit e like!).

È pensato. Nulla è stato lasciato al caso. Alle domande superspecifiche dei lettori di Internazionale presenti in Sala Estense (ricordatemi di buttarmi nell’editoria rosa disimpegnata, se nella prossima vita farò la direttrice di testata) Giovanni De Mauro ha sempre risposto Ci siamo interrogati a lungo su questo aspetto, e alla fine abbiamo deciso che…

È amatissimo. Da chi l’ha voluto, da chi l’ha pensato, da chi ha coordinato il progetto, da chi come quella gran càrtola di Mark Porter ci ha lavorato come fornitore. Dalla redazione al gran completo che era presente, compresi quelli che –ce ne sono, ne son certa– amano l’odore della carta. Perché lo sanno che del web non si può fare meno, e allora tanto vale farlo bene.

In conclusione, due note.

.prima.

Perché italia.it non è stato fatto (e voluto, e pensato, e ragionato, e progettato, e amato) così? Perché quello che si può permettere un piccolo settimanale indipendente italiano non può permetterselo l’ente turistico dell’ex prima destinazione vacanziera mondiale, paese europeo di sessanta milioni di abitanti?

.seconda.

Lo amatissimerete anche voi, prevedo.

 

La foto è di me stessa medesima, scattata su suggerimento di Ines e Giulia per festeggiare che all’ottava edizione persino quei burberi dei ferraresi han pian pianino adottato il festival più bello che c’è.

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smancerie

Quello che ho imparato quest’anno

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Settembre is the real Capodanno. A me settembre mette una malinconia pazzesca. E difatti non ho mai fatto né farò ora propositi. Ma è stato un anno lunghissimo. Un anno inteso da settembre a settembre. Mi è successo di tutto, ma non ho voglia di parlarne ora. Quello che voglio raccontare —e già ne avevo voglia da un po’— è cosa e soprattutto come ho imparato. Tante volte la vita mi sorprende. Quelle volte è bellissimo.

Sono tutta gialla

Al primo Freelancecamp a cui ho partecipato (che era poi il primo in assoluto), l’energia di Roberta Zantedeschi mi aveva colpito come una secchiata d’acqua gelata in faccia (io adoro l’acqua fredda). Ci aveva parlato di colori che riescono a descrivere come stai al mondo (e come stai al lavoro), e ne ero stata affascinata. Ma non ero certa che fare un percorso di quel tipo potesse servirmi a qualcosa. Ebbene, i miei dubbi erano infondati. Presa da un’insolita intraprendenza (si vede che ne avevo davvero bisogno) ho chiamato Roberta dicendole più o meno Credo di voler comprare una tua consulenza. Senza minimamente insistere —anzi, accertandosi più volte d’aver capito di che avessi bisogno— mi ha spiegato il funzionamento, il costo, i risultati che avrei avuto. Neanche così ero certa di quello che stavo comprando, ma mi sembrava che lo scopo dichiarato (saperne un po’ di più di se stessi) facesse proprio al caso mio. Ho risposto a un questionario lunghissimo, seguendo l’istinto, il sentimento e un po’ di ragione. Dopo qualche giorno ho ricevuto un report, in italiano e in inglese (all’estero questi dossier sono ben valutati in fase di selezione) e già ero stupefatta dell’esattezza di certe descrizioni e della profondità e utilità di certe analisi. Ma il valore maggiore l’ho colto nel colloquio di restituzione con Roberta e Andrea, che sono di una bravura stellare, e assieme fanno faville. Non ho concordato –ovviamente– queste righe con nessuno dei due, né li ho avvisati che ne avrei scritto. Se sentite di aver bisogno di capire meglio come agite sul lavoro e quali sono i vostri punti di forza, un’occhiata a Pakarangi io la darei. Poi mi direte di che colore siete, e se andate d’accordo con i gialli… ;)

Scriv(iam)o a mano

Quando ho sentito la prima volta dell’esistenza di #scriviamoamano ho pensato Che stronzata radical chic! (Papà, lo so che non sta bene usare le parolacce, ma è per fedeltà di cronaca: mi perdoni?) Poi siccome ne hanno parlato benissimo persone con cui condivido tanti giudizi sul mondo (Alessandra in primis), mi sono presa un giorno dal lavoro (non pagato), mi sono iscritta alla prima data bolognese disponibile (pagando) e mi sono regalata una delle giornate formative più belle di sempre. Ora, non so se proprio tutti potrebbero restare fulminati sulla via di damasco della ri-scrittura, ma se vi siete sempre chiesti per quale assurdo motivo alle elementari ci insegnassero a fare la a con un cerchio aggiungendoci però una zampetta davanti “affinché non cascasse” (?!) questo è il corso che fa per voi. Io che scrivo a mano da sempre e non ho mai smesso (prevalentemente tenendo un diario sconclusionato dal 1992 che per di più ha un nome proprio), ho re-imparato a scrivere, trovando finalmente una logica e una deliziosa efficienza nella mia scrittura a mano, che si è fatta più “scientifica” ma restando appunto “mia”. È il regalo più bello che la bravissima Monica Dengo potesse farmi. Di questo corso magnifico aveva già ottimamente scritto Roberta, quindi la chiudo qui, e vado a comprare l’inchiostro per la stilografica e qualche pennarello giapponese…

 

Lasciarsi bene è quasi più importante che trovarsi (autocit.)

Qualcuno potrà pensare che io sia esagerata quando parlo della fortuna sfacciata che ho nel conoscere persone splendide e molto migliori di me. Qualcuno sbaglia. E mai come quest’anno gli amici tra i più cari che ho hanno dimostrato di essere persino migliori di come io li ritenessi, eventualità che quasi non credevo possibile. Lo han fatto perdonandosi a vicenda, e perdonando in primis se stessi. Lasciarsi è sempre dura. A me è capitato in ambito professionale, e forse non avrei gestito con più lucidità di quel che potessi sperare questo faticoso processo, se non avessi seguito quasi contemporaneamente le loro vicende intrise degli stessi sentimenti contrastanti: ammissioni, cambiamenti, indisponenza, commozione, ira, analisi, comprensione, perdono. La vita professionale e quella personale sono oggi così connesse che magari le distingui, ma poi i sentimenti che le governano finiscono per assomigliarsi tremendamente. Col vantaggio però di poter imparare la lezione nell’una e trasferirla all’altra, e viceversa.

La perfezione non esiste, e il web è panta rei

Sono così fortunata che una mattina ero all’Archiginnasio (che già è una gran bazza) e contemporaneamente ascoltavo le parole alate di Miriam, che è una formatrice brava e pacata. Col suo sorriso disarmante a un certo punto fa “Non vi sto certo suggerendo di fare pasticci, ma ricordate che sul web almeno non si ha l’ansia del Visto si stampi, e si possono fare piccole migliorie man mano; ergo: non procrastinate, fate!”. Ora, io non sono per niente perfezionista. Però sono spesso non abbastanza soddisfatta di me, compresi i miei scritti. E mi tengo i post in bozza per un tempo irragionevolmente lungo. Quando capita, penso al sorriso di Miriam, chiudo e pubblico.

 

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Acqua fresca

Warning: post acido (ma c’è pure tanto amore)

Ne parlo perché ne ho una giocosa occasione. Però —concedetemelo— di norma non ne parlo, perché appena apro bocca su argomenti siffatti quel che ne esce è solo un poderoso e sincero sbadiglio.

Le polemiche mi interessano poco da sempre, e così quelli che si lamentano di quelli che si crucciano di quelli che si lagnano della campagna #IceBucketChallenge mi interessano meno di zero.
Però, certo, gli interrogativi sull’opportunità, l’etica e l’efficacia della campagna restano, e sono invece di notevole interesse, personale per ciascuno abbia a cuore la ricerca medico-scientifica, e pubblico per la ricaduta sulla società.

Ho letto riflessioni lucide, analisi profonde o considerazioni fulminanti (in genere su Twitter).

Come sempre, nel calderone della polemica che aggrava la mia già cattiva occlusione mandibolare per eccesso di sbadigli, si mescolano anche acume e valore civico, tra l’altro perfettamente distinguibili, basta selezionare i propri canali e abbassare al minimo il rumore di fondo. Non è difficile. Se ce la faccio io che sono fessacchiotta e anche un po’ pigra, tutti ci possono riuscire.

E invece Michele Serra non ci riesce, e non perché non ci prova. Ma perché non ne avrebbe nemmeno bisogno. Dice di non essere sui social (no, lui parla di “sommo piacere dell’assenza” confermandoci che l’elzeviro vive e lotta in mezzo a noi), ma poi sa tutto su questo “autogavettone benefico” e sul “coro di suocere in servizio permanente” che avrebbe l’ardire di criticare il chi e il come, fino a ridurre “il web” (coll’articolo determinativo) in un amplificatore di “lavate di capo”.

Ora, Serra scrive da una vita e lo sa fare con grande maestria, ma quel che mi chiedo io è: Ma lui che ne sa? Perché, se lì dentro non c’è, si sente in dovere di parlarne dondolante appeso tra due alberi? Se “il web” è tanto esecrabile, perché mai il suo giornale di giornalista (il mio ex giornale di lettrice) riempie paginate e paginate delle peggiorni scemenze de “il web”, dei gattini che lo commuovono, dei video che lo scandalizzano (che permaloso, questo “il web”), delle fotogallery che ne fanno il giro?

La polemica di Serra è poca cosa di per sé (Alla gggente non gli va mai bene niente e criticano pure la beneficienza? Ma va?!), ma diventa ancor più irritante perché arriva da chi non sa di cosa parla, con una supponenza che in altre epoche mai avrebbe perdonato a certi interlocutori tromboni.

Quindi se la mia amatissima amica Alice condivide l’Amaca io non posso fare a meno di pensare che vale molto più un suo qualsiasi post sul neonato blog (prepararsi all’Opera, per citare l’ultimo, delizioso) di mille Amache reazionarie che nulla ci possono spiegare perché nulla hanno indagato mai su “il web”, godendo per autonoma ammissione di “sommo piacere dell’assenza” a cui non possiamo che rispondere: #esgc.

Alla fine mi sono fatta la mia doccia gelata (confesso, adoro fare le docce fredde: non è stato un grande sforzo), e questo post non aggiunge niente di intelligente a quanto è stato scritto sull’argomento da chi ha saputo farlo meglio. Quello che è certo –per me– è che su “il web” c’è nelle nicchie giuste un senso di responsabilità e di approfondimento maggiore che in tante stanze dei bottoni e in redazioni (che immagino polverose) di giornali che hanno insegnato a tutti noi (o almeno a me) a leggere, ma che non hanno da un pezzo più niente da dire.

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Tutte insieme appassionatamente

Qualche giorno fa Alessandra ha parlato di passioni a State of the net. Guardatela e ascoltatela (qui), vi pagherò da bere se ve ne pentirete. Mi aveva fatto delle domande per avere il corpus scelto su cui costruire il suo serrato confronto e racconto sulle passioni e su internet che ce le fa vivere meglio, al netto dell’information overload (addirittura c’è gente che scrive libri sull’argomento…). Riporto qui le mie risposte e frammenti delle mie tante passioni, ché una sola no, non mi basterebbe mai.

1. Hai una o più passioni?

Temo di avere (quasi) tutte le passioni, che forse equivale a non averne alcuna. “Le passioni degli altri” è una formula che mi ha folgorata fin dal primo momento che un tal Gianluca (dubito tu lo conosca…) l’ha coniata. ;) Le passioni degli altri sono quelle che lascio sviluppare loro, e poi io me ne prendo solo la dose che mi interessa. Di più non ci sta, ma non per pigrizia. Semplicemente, mi toglierebbe spazio per altre passioni. Amo sfinirmi di passeggiate in montagna, ma adoro anche il mare. Vado al cinema due volte alla settimana, ma sospendo le sessioni in sala da maggio a settembre, perché stare al chiuso quando posso stare fuori a farmi una birretta a un tavolino all’aperto mi sembra un’eresia. Mi piacciono le lingue, a partire dalla mia linguamadre italiana, ma non farei mai la linguista. Sempre meglio un’antologia di una monografia.

2. Che posto occupano nella tua vita?

Le mie tante passioni occupano gli spazi liberi della mia vita e del mio tempo, senza gravi accavallamenti. Nessuna –mai– ha occupato ogni singolo minuto libero concentrato in un breve lasso di tempo. Mai passato un mese intero a seguire solo una passione: roba da appassionati. Le mie passioni sono trasversali, diluite in lunghi tempi, o brevi ma comunque conviventi con altre di pari grado. Una passione che certamente ha accompagnato tutta la vita è stata la lettura, ma io non la calcolo mai. “Leggere” non è una passione. “Leggere tutta la serie di Game of thrones in un mese e mezzo con gli occhi sanguinanti” forse sì, ma non è roba che fa per me. E soprattutto leggere è una passione di cui è davvero squallido vantarsi, come se non si leggesse per puro piacere, per infinito godimento personale.

 3. In che modo Internet ha cambiato – se l’ha fatto – il tuo modo di vivere le tue passioni?

Internet è il massimo per vivere le passioni degli altri, per carpirne quel tanto che mi basta per passare alla passione successiva. Il meglio della musica, del cinema, dello sport, di qualsiasi altro argomento mi arriva già semilavorato, sezionato e selezionato, talora antologizzato. Pesco i fiori seminati dagli altri con passione, senza rubare loro nulla e anzi provocando un compiacimento di cui sono la prima a stupirmi. “Chiedimi info su questo gruppo quando vuoi, mi fa davvero piacere” mi ha scritto spesso il mio spacciatore di musica dopo i miei sentiti ringraziamenti per l’ennesima segnalazione di un album da bacetti. Per non parlare delle conversazioni sulla lingua con la Crusca o con quelli de La lingua batte, il programma radiofonico più bello che c’è. Senza internet col cavolo che potrei guardarmi i mondiali di pallamano, una passione difficile da vivere in un paese in cui è uno sport minoritario. Con lo stesso spirito con cui faccio tutto il resto, corro. Per me, senza app che mi cronometrino, godendomi il piacere della fatica e la buona musica segnalatami o un podcast de La lingua batte (che non avrei forse mai scoperto se non grazie @alicebrignani). Ma quando leggo tuit dei matti che bazzicano attorno @runlovers spesso penso “Non diventerò mai assatanata così e forse non lo voglio nemmeno, ma ora anziché guardarmi un’ora di House of cards mi metto le scarpette e vado a farmi una corsetta, ai miei ritmi e con la mia musica”. Spesso le passioni degli altri ti spronano se non altro a muovere le chiappe. Grazie internet, vivevo bene anche quando non c’eri, ma preferisco così.

Ripensandoci forse una vera passione ce l’ho. Amati, amatissimi badge…

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Non è da me farmi fotine tanto sceme. Ma il Freelancecamp mi galvanizza e tira fuori la mia parte più giocosa. Ho rilasciato un’intervista alla mia laica trimurti (Alessandra, Miriam, Gianluca, cui dedico il più grato e affettuoso dei miei pensieri). Ma voi leggete le altre interviste che sono ovviamente migliori. Ci vediamo a Marina Romea il 24 e 25 maggio!

fotine

Glu glu glu

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Sono una onorata amica dell’imperdibile Impronte Digitali & friends, la versione di quest’anno del programma radiofonico di Pirex e Inkiostro su Radio Città Fujiko, che trovate sulla frequenza 103.1 a Bologna e ancora più comodamente sul sito.
Li ascolto da sempre e mi diverto tantissimo a commentarli in diretta su Twitter –da casa o dall’ufficio– mentre loro chiacchierano di web e compagnia bella dagli studi di via Gianbologna.
Martedì scorso ho varcato questa ambita soglia e sono stata loro contentissima raffreddatissima e spero non proprio impacciatissima ospite.
Abbiamo parlato –ovviamente– dell’Internet Festival di Pisa.
Ma anche accennato a temi che dovremmo sviscerare. Perché il doppiaggio è il male, per esempio.
E di tante altre impronte più o meno digitali.

La registrazione della puntata è qui, magnificamente introdotta da Pirex sul blog di Inkiostro.

Se non sono stata proprio un fallimento dovrei tornare.
In ogni caso ascoltateli perché sono uno spasso: tutti i martedì dalle 19 alle 20.

La fotina l’ho fatta io alla radio proprio da dove trasmettiamo.

***

UPDATE! (Sono tornata quindi desumo che non ero del tutto un fallimento: evviva!)

L’elenco di tutte le puntate, per ascoltarle o scaricarle o ridere di me, è alla pagina dei Podcast!

fotine, parole parole parole

On air!

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giringiri

#IF2013 THEN @biljaic nel social media team

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E insomma andrò a Pisa all’Internet Festival. E lo racconterò un po’, da qui e da Twitter, Instagram e Facebook: sono nel Social Media Team di #IF2013, evviva! Avevo programmato di farci un salto in ogni caso, almeno per un giorno o due. Anche se –certo– dopo la sbornia di Internazionale a Ferrara (un evento che adoro e che non perdo mai), il più sarebbe stato trovare le energie per ripetermi a una settimana scarsa di distanza. Quando ho visto il bando per il social media team l’ho trovato così “accogliente” che ho scritto l’application di getto, in un quarto d’ora. Poiché senza che l’avessi pianificato contiene molte riflessioni su comunicazione, registri, stile, online/offline, livetweeting e annessi e connessi vari, riporto qui la mia risposta alla domanda cruciale del form per l’application:

Perché dovremmo sceglierti

Dovreste scegliermi perché non so fare livetweeting, ma so fare thinktweeting. L’anno scorso al Festival di Internazionale (bravi che non vi siete sovrapposti, quest’anno!) i ragazzi delle primavere arabe raccontavano dei loro livetweeting dalle piazze nordafricane e parlavano di dieci tweet (tuit?) al minuto per ore e ore. Pensavo “non potrei mai farcela!”. Ma lì c’era la Storia da raccontare e scrivere in tempo reale.
A me degli eventi piace sì trascrivere qualche frase captata dal palco, ma commentata, interpretata, quasi spiegata. Sono un’ottima spalla ai tuittatori compulsivi, insomma, anche se non sforno dieci tuit al minuto.

Poi dovreste scegliermi perché amo gli eventi e sono una feticista del badge col mio nome al collo. E certo questi sono problemi miei, ma la circostanza è favorevole a garantirvi un entusiasmo ai limiti del ridicolo e una totale dedizione alla causa. Se l’evento è bello (e il vostro lo è), l’euforia trapela da tutti e 140 i caratteri, da ogni pixel di foto quadrata con filtro, e persino da ogni post del bruttino Facebook…

Dovreste scegliermi perché sono una teorica e tecnica della comunicazione di massa, quella cosiddetta tradizionale e quella online, anche se il confine è sempre labile. Ho studiato Semiotica a Bologna e Marketing ad Alma Graduate School, ma soprattutto coordino progetti di comunicazione per l’agenzia Kitchen, di cui sono socia da sempre e per la quale curo in prima persona i progetti di comunicazione 2.0, dal punto di vistra strategico e poi operativo.

Dovreste scegliermi anche –non solo, ma anche– perché vivo di networking e coltivo relazioni vere e fruttuose con professionisti che lavorano in settori affini al mio, ma anche con chi ha esperienze lavorative distanti. Sono responsabile della comunicazione di Generazioni, il network dei giovani cooperatori di Legacoop Emilia-Romagna, fin dalla sua costituzione nel 2007; incarico che mi ha portata più volte all’estero alla scoperta della cooperazione europea e all’allargamento della nostra rete di contatti. Conosco, apprezzo e ammiro molti “nomi noti” nel web, che mi onorano della loro amicizia (sia online sia –fortunata!– de visu): Gianluca Diegoli, Alessandra Farabegoli, Miriam Bertoli, Massimo Dietnam Fiorio, Domitilla Ferrari, Daniele Ferrari, Luca Sartoni.

Se non fosse abbastanza, dovreste scegliermi perché scrivo bene, o almeno mi impegno a farlo più che si può. Lungi dall’essere grammarnazi (amo coltivare il dubbio più che sputare sentenze), mi piace onorare la nostra bella lingua evitando formule astruse o burocrateggianti, permettendomi il lusso –senza esagerare e senza penalizzare la chiarezza– di variare il lessico, di innamorarmi di espressioni insolite e neologismi intelligenti. So adattare il registro, amo interpretare il contesto attraverso la scrittura. Sperando quindi che queste poche righe non celino (troppi) refusi, vi assicuro che non scrivo sempre in modo così scanzonato. È una libertà che mi sono presa vista la vostra briosa presentazione alla “Ricerca di componenti per il social media team”.

Riassumendo quanto state cercando, nell’ordine:

“Appassionati d’innovazione: nuove tecnologie, nuovi materiali, cinema, web series, business Start-up, cittadinanza attiva, Big Data, hackaton, comunicazione digitale e social, didattica e l’informazione, editoria e blog.”
Direi che non manca nulla, sono i “miei” temi.

“Ricorda: con fantasia e passione ognuno potrà rendere davvero speciale il proprio contributo, ed è proprio questo che ci aspettiamo!”
Potete contarci! :-)

“Sii creativo! Le cose più belle saranno riprese e valorizzate nei profili ufficiali dell’Internet Festival.”
La prendo come una promessa.

“Attento a non ‘cinguettare’ troppo spesso o con contenuti non strettamente rilevanti: un aggiornamento troppo frequente o improprio può risultare fastidioso.”
Lo dico sempre, io. ;-)

“Racconta le cose dal tuo punto di vista, esprimi le tue opinioni, mostra la tua personalità.”
Non saprei fare altrimenti…

“Sarai una voce ufficiale. Sii professionale e amichevole quando ti trovi a contatto con i visitatori del Festival.”
Un sorriso per tutti: del resto lo faccio sempre.

“Prima dell’inizio del Festival cerca di raccogliere tutte le informazioni che ritieni utili.”
Che sono secchiona l’ho già detto?

“Mettiti nei panni del visitatore: se vedi qualcuno in difficoltà, offrigli il tuo aiuto. Non sarà sempre facile capire se una persona sta visitando il Festival o semplicemente la città, ma ricordati che chi è portavoce del Festival, lo è anche di Pisa.”
Sono una normalista mancata, sarà un onore raccontare Pisa.

Credo che potrò fare un buon lavoro. :-)

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La (mia e solo mia) grammatica di Twitter

Sono molto tollerante. Ho perso una patria intera per colpa dell’intolleranza. Sono quindi molto tollerante. Ma esigente. Ho una tielle selezionatissima. Leggo solo chi mi va. C’è chi scrive con meno cura di altri, e non mi dà (più di tanto) fastidio. Appunto, sono tollerante. E esigente. Soprattutto con me stessa.
Queste sono le regole che mi piace seguire, perché mi piace il risultato che danno. Mi sgrido (un po’) quando le disattendo per distrazione. Sono mie e solo mie. Non seguitele, per carità. E leggetele così, solo se vi va. (Anche perché le regole più belle di Twitter restano quelle di @dietnam di un post un po’ vecchiotto: le seguo ancora, anche se forse non le segue più nemmeno lui.)

1. Non calpestare le aiuole, e nemmeno l’italiano.

Oh. Nn scrv mai csi’, xke’ nn mi piace e mi dà fastidio vederlo scritto così. Anche se i caratteri son pochi, preferisco scrivere tutto per esteso e meglio che posso.

2. Trova il tuo punto fermo: elimina (o diminuisci drasticamente) i puntini di sospensione.

Possono essere piacevoli. Di rado. Mi dicono che Dovlatov ne usasse a profusione. Adoro Dovlatov (non sapete chi sia? dovreste!), ma non me n’ero mai accorta. Vanno usate con parsimonia. Specie da chi –come me– non è Dovlatov.

3. Le emozioni si possono anche scrivere. Quando puoi, lascia le emoticon fuori. Ma soprattutto fuori dalla parentesi.

https://twitter.com/jetpack/status/281055211307556865Adoro quando le persone belle dicono “sospiro” o cose così. Tipo @antogasp. Sopporto senza problemi quando le persone belle fanno una crasi tra emoticon e parentesi (per intenderci, una cosa come questo sorriso :) ma non mi piace per niente e non lo faccio mai mai. Lo fa @gluca ma a lui perdono un sacco di usi.

4. Quando tuitti fai dei tweet, ma pure dei tuit. Non guardo la tivvù (né la tv), ma amo la mia tielle pure quando guarda in massa sanromolo.

Applico a twitter le regole che seguo per le parole straniere in italiano. Si scrivono dei tweet, mai dei tweets (voi eleggereste mai delle misses Italia? andreste a vedere dei films?). Però dalla mia following spagnola @sgambarte ho imparato tuit che trovo bellissimo (gli spagnoli dicono anche ordenador, ma sono più simpatici dei francesi che usano ordinateur: chissà perché). Con tuit compongo le parole declinate o coniugate: insomma, tuittare mi suona meglio di tweettare o twittare. La tielle (ossia la TL ossia la timeline) è invece un vezzo da semiabruzzese: in lingua locale vuol dire “pirofile” da forno e mi fa tanto ridere.

5. Il retuit/retweet è condivisione hic et nunc, la stellina è “me lo salvo per sempre”.

Anche questa “regola” (ma per me è più una consuetudine che trovo comoda) l’ho presa da uno tra i miei primi following: secondo me fa ancora così pure lui. Amo tanto quando qualcuno stellina una mia risposta affettuosa per farmi capire che l’ha letta e apprezzata. Ma io non lo faccio mai. Al massimo, rispondo anche solo con un sorriso (pure emoticon, eh: talora sono tollerante anche con me stessa). Insomma, non ho sposato la recente evoluzione “stellina = like”.
Così le mie stelline restano una sorta di antologia che posso rileggere quando voglio. Se volete, la “raccolta di fiori” è qua.

6. Non ti seguo (scusa ma sono già a 299).

Non sono una oltranzista della tielle leggera. Chi vuole seguire solo 75 profili, lo faccia. A me non bastano, c’è troppa gente al di là e al di qua dell’Adriatico che pensa bene, scrive bene e mi tiene compagnia. Perché c’è un limite fisiologico per ciascuno, e il mio s’aggira sulle 300 persone. Quindi di norma non ne seguo più di 299, e quando sono su quella soglia evito di aggiungerne senza prima dire addio a qualcuno che non tuitta più così bene come un tempo.

7. La lettura può attendere (ovvero, la compresenza di desktop e smartphone).

Di giorno non ho tempo per leggere tutti i tuit di tutti i miei following. Di notte neppure. Però sono insonne da sempre e ogni tanto ci riesco. Ma anche se non la leggo tutta, gran parte della mia tielle la recupero la sera, dal telefono. Quindi mi capita di scorrere alcuni tuit di giorno dal computer nelle pause di lavoro, e magari rispondere anche a delle sollecitazioni. Alcune discussioni in corso le vedo ma non le capisco, non avendo il tempo di approfondire. Poi la sera recupero più che posso grazie a Tweetbot sul telefono che resta a dove l’avevo lasciato la sera prima (quindi mi risultano sempre da leggere circa 999 tuit). È una follia, lo so. Ma lo faccio solo perché mi va, non è una imposizione. Anzi, è una specie di rito che quasi concilia il sonno. Ed è tanto buffo capire finalmente alcune discussioni che m’erano risultate criptiche durante il giorno, tra un budget e un esecutivo per la stampa.

8. Chi mi ama mi segua (e non pretenda che sia viceversa).

Monitoro i miei follower senza morbosità. Sono contenta che esistano, sono onorata che interagiscano con me spesso. Leggo sempre le bio dei nuovi follower (anche queste è una cortesia carina che ho coniato da altri). Ma non ricambio mai il follow in automatico. Non mi pare corretto. Twitter non è un social biunivoco e paritario. È asimmetrico, e questo è il suo bello. Alcuni miei following preferiti, per esempio, non sono follower (ossia, non mi seguono). Me ne faccio una ragione e continuo a seguirli.
Ho fatto un’unica eccezione. Ma come potevo continuare a resistere alla corte tuitteriana di @beppe142?

9. Magari i TT sono utili. Ma (mi) annoiano. Indi per cui sono inutili (per me).

Lo so che li amate, che vi manda in estasi “mandare” un argomento o hashtag in TT. Ma a me non frega niente. Da anni tengo i TT impostati su worldwide e non su Italia perché preferisco ignorare gli abissi di ignoranza dei miei conterranei. Non guardo mai mai i TT, ignoro i vostri tuit in cui parlare di TT, non contribuisco se non per puro caso a niente che sia connesso ai TT. Punto.

10. Un dogma è per sempre, una regola di Twitter è per il tempo che serve.

Poche esperienze al mondo sono più soddisfacenti che rompere le regole. Soprattutto se proprie. Essere (un po’) indulgenti con se stessi è indispensabile. Quindi questo decalogo è in evoluzione con brio. Anche perché è Twitter stesso che cambia, è la Rete che evolve, siamo noi che la usiamo sempre con modi nuovi e più consapevoli, per fortuna.

 

Mi sono ricordata tempo fa che avevo iniziato a scrivere su Twitter (orrore: in terza persona!) perché su Facebook scrivevo solo in inglese (oltre la metà dei miei contatti non parlava italiano) e mi mancava scherzare con la lingua che conosco meglio e uso di più. Non tutti i mali brutti blu vengono per nuocere.

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