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Ode alla timidezza, ovvero al regno del possibile

Sono cresciuta con un cugino quasi coetaneo talmente faccia di bronzo che io al confronto mi reputavo timida, e una sorella talmente timida che dimenticavo la mia presunta timidezza e cercavo maldestramente di aiutarla, senza speranze.
Per essere di qualche aiuto a una persona timida —e per la verità a qualunque persona— c’è bisogno di una qualità che io possiedo solo in dosi omeopatiche, anche se va un poco meglio dopo la maternità: l’empatia.
“Quando ti prendono in giro tu non reagire, vedrai che smettono” dicevo a mia sorella negli anni spensierati delle elementari. E lei ci provava con tutta sé stessa, ma poi paonazza esplodeva in un pianto inconsolabile dopo minuti e minuti di querula derisione da parte del piccolo mostro sadico di turno. E io sinceramente non capivo. Prendevano in giro anche a me, ma io ridevo sempre, senza sforzo. Ho la risata facile, e pazienza se parte prendendo spunto da me. Anzi, forse fa pure più ridere. Io la sua ritrosia semplicemente non la capivo. E fatico a capirla anche ora che siamo grandi, e la sua timidezza è molto più gestita e la mia empatia è un minimo (ma un minimo!) migliorata.

A mio cugino e mia sorella volevo e voglio bene, a entrambi. Proprio perché così diversi, anche se me ne rendo conto solo ora. Lui rappresentava ai miei occhi il regno del possibile. Sembrava sempre che le leggi della fisica e le convenzioni sociali fossero in dubbio perenne, o messe lì apposta per essere sfidate. Il salto dal ramo più alto o lo scherzo più beffardo al vicino di casa erano un richiamo irresistibile.
“E se ci scoprono?” chiedevo quando mi proponeva di seguirlo, e io ero Ulisse e lui la sirena in questi casi. “Dirai che ho fatto tutto da solo, tanto con me ci hanno rinunciato” rispondeva sbrigativo, perché l’unica cosa che contava era passare all’azione. Tutte le volte che prendo una decisione a lungo ponderata senza mai tornare sui miei passi, tutte le volte che dico un sì o no convinti e a cuor leggero sono anche una eredità dell’esposizione alla sua caparbietà infantile, a quella voglia inesauribile di andarsi a prendere quel che si desidera.
“Mamma io da grande voglio avere cento Ferrari!” disse da bambino a mia zia.
“Cento?! Ma te ne basta una. Cosa ci fai con le altre 99?”
“Per le mie donne!”
Da bambina socialista non capivo (anche lui era un bambino socialista in teoria, e in questo è sempre stato più sveglio di me), ma le sue risposte caustiche, il suo esempio di proattività verso il mondo sono state comunque una scuola preziosa, anche se il suo lascito più grande è ovviamente stato l’affetto che ci siamo scambiati nella nostra grande coccolosa famiglia. Amor vincit omnia.

Mia sorella rappresentava invece il regno delle paure possibili. Paure che quasi mai io provavo sulla mia pelle, ma che capivo essere parte dell’esistente. Nell’educazione balcanica un invito ricorrente a bambini e bambine è: non aver paura. (Che poi io dico “balcanica” intendendo “iugoslava”, ma forse pensando più che altro “dalmata” o magari mi riferisco in particolare alla mia famiglia: non lo so; più passa il tempo e meno cose so.) Ne boji se, non aver paura. Tuffati, ne boji se. Percorri il sentiero buio, ne boji se. Chiedi un’informazione a questo signore che non conosci, ne boji se. Ci ho messo molti anni della mia vita adulta a riscoprire il valore della paura e a ammettere che il mio più che coraggio era rimozione.

Crescere con mia sorella è stato un privilegio da ogni punto di vista. Sono stata una sorella ingombrante per molti aspetti, ma con l’ingenuità con cui credo e temo anche oggi di essere una compagna complicata, un’amica leale ma non sempre ricettiva, una collega che non sgomita mai ma che potrebbe risultare scostante senza avvedersene. Con la sua incredibile abilità nel racconto orale, eredità del nostro amatissimo nonno (sì, il nonno del water rosa), mia sorella descrive scenette dal suo lavoro in un contesto multilingue e multiculturale e io la ascolto affascinata, mi sembra di sedere lì accanto a lei.
“Eravamo in riunione e io sentivo il suo disagio” dice, e per me è come se parlasse di un superpotere fichissimo.
Mia sorella è stata una bambina timida ma non mi pare che lei si definisca una persona timida oggi. È sempre ben voluta, è divertente, è attenta agli altri e punto di riferimento della sua multiforme comunità di expat. Penso che tanti aspetti positivi di lei oggi abbiano le loro radici nelle sue paure di ieri, che lei ha affrontato con molta più compiutezza di me. Anche io ho un po’ beneficiato di riflesso delle sue piccole grandi conquiste osservandola, senza sempre capire subito, ma elaborandole lentamente e spesso inconsciamente. Alla fine anche lei ha rappresentato in modo diverso il regno del possibile. Delle paure che era possibile accogliere, accettare e superare.

Tra le persone migliori incontrate nella vita quelle timide sono sovrarappresentate. Forse le preferisco. O forse semplicemente tante persone timide (o che lo sono state nell’infanzia) sono anche persone in gamba. Il mito contemporaneo del successo a tutti i costi, e per di più così codificato e uguale per tutte e tutti (soldi, fama, riconoscimento sociale), è per me aberrante sul piano ideologico ma è anche noioso perché presuppone di norma anche lo stesso prototipo di protagonista: una persona estroversa, esuberante, un po’ superficiale e “cazzuta”. Essere determinati è una caratteristica, ma forse non è giusto che sia considerata una qualità indispensabile. Mia sorella al ristorante ci mette 20 minuti a ordinare e poi regolarmente si pente della sua scelta. Non ho mai capito come questa tendenza sia legata alla passata timidezza, ma di sicuro il mondo in cui viviamo premia persone molto simili tra loro e accomunate da una certa smania.
Io sono femmina, sono nata in un paese del terzo mondo (quello che il terzo mondo lo ha inventato, per così dire), sono stata apolide, a lungo extracomunitaria, non mi è mai mancato l’essenziale ma sono spesso stata vicina alla soglia della povertà, sono cresciuta in provincia senza spalle coperte. In teoria parto da una serie di svantaggi notevole. In questo contesto, ciò che mi ha mandato avanti nella vita non è stato solo quello che so o che so fare, ma anche un carattere che più per caso che per altro è conforme a quanto richiede il mercato. Io sono una rompiscatole per un sacco di aspetti, e del sistema socioeconomico occidentale contesto quasi tutto. Ma sono una persona estroversa e naturalmente determinata. E questo mi ha dato negli anni un vantaggio di cui non ho merito. Sia chiaro, il privilegio di nascita è altra cosa, e lo combatterò per sempre. Ma tra noi comuni mortali che viviamo di stipendio il proprio naturale temperamento gioca un ruolo notevole e forse sproporzionato.

Un caro amico usa definire le persone che conosce secondo il criterio simpatica / non simpatica. Una volta gli avevo detto che non mi ritrovavo in questo metodo, perché raramente giudico le persone come simpatiche / non simpatiche, ma la mia argomentazione si è arenata lì. La sua compagna aveva invece aggiunto “Sì, anche perché una persona timida raramente viene ritenuta anche simpatica, ma non per questo non può essere di valore”. Naturalmente il mio amico intende genericamente con simpatica / non simpatica una persona che gli piace / non gli piace. Ma quella riflessione di sua moglie (nonché anche lei cara amica) secondo me è molto vera. Il mondo ha mille difetti tra cui quello di valorizzare poco le tranquille qualità delle persone timide o comunque persone che si discostano dallo standard di chi sa prendere la parola e pensare sempre di avere qualcosa da dire (come io in questo post o io in mille altre occasioni). Quando mia sorella alza gli occhi al cielo e sospira “Tu e tuo padre sempre competitivi!” non solo mi fa ridere ma mi fa anche bene, perché mi ricorda che ci sono mille modi per essere felici e stare bene con sé stessi e con gli altri.

Oggi ho detto a una bambina che non è mia figlia ma che fa parte della mia famiglia Mi piaci un sacco! guardandola in faccia mentre gli occhi mi si facevano lucidi. La tenevo in braccio, mi stringeva forte e percepivo che si sentiva al sicuro con me. L’avevo appena portata fuori da un negozio di scarpe dove tre commessi si erano attivati attorno a lei senza che avesse proferito parola, né espresso preferenze, né camminato avanti e indietro come suggerito per testare le calzature, né rimirato allo specchio le nuove creazioni ai piedi. Neanche all’orecchio dell’amorevole papà aveva ceduto e sussurrato se preferisse il paio rosa o quello blu. Così mentre suo papà pagava l’ho portata fuori a prendere aria e a dirle che mi piace perché è vero.

In quello stesso negozio un mese fa sono andata con mia figlia che ha la stessa età. Ha detto “Buongiorno!” tutta garrula ai commessi, provato quattro o cinque scarpe, ha camminato avanti e indietro di specchio in specchio, toccandosi il ditone in punta anche se erano sandali (giocare al negozio di scarpe è per lei un gran divertimento), e poi ha scelto quelle che voleva senza tentennamenti.
“Ma non è che preferisci queste, tesoro?” ha chiesto alla commessa.
“No!” l’ha liquidata lei, come se le avesse proposto di mangiare una cavalletta.
La amo quando fa così, perché è totalmente lei. E naturalmente mi riconosco in questa modalità di fare, e questo c’entra nella connessione che c’è tra noi due. Ma voi dovreste vedere il successo che riscuote mia figlia per quelle che sono normali esternazioni del suo carattere aperto e non certo qualità sovrumane. Mia figlia dice una spiritosaggine in pubblico e la trattano come se avesse l’orecchio assoluto. Certo è notevole, ma non dovrebbe essere un comportamento socialmente osannato rispetto a quanto è svilito il normale silenzio di un bambino o una bambina in un contesto sconosciuto in cui non è a proprio agio.

Quando mio cugino mi prendeva per mano e mi trascinava in situazioni inesplorate o quando lo facevo io con mia sorella non funzionava un granché. Però un pochino, con costanza, volta dopo volta qualche passetto di consapevolezza arrivava, e qualche curiosità veniva colmata. Quello che meno capivo era quando mia sorella voleva fare un’esperienza X a caso, ma non riusciva a farla. Era diverso quando giustamente si rifiutava di fare quello per cui non aveva alcun interesse. Quando le leggevo in faccia la scissione tra la voglia di partecipare e il terrore di esporsi io semplicemente non riuscivo a immedesimarmi.

Io non lo so se mia figlia imparerà a prendere per mano con delicatezza la “mia” altra bambina timida e tosta per renderle un po’ meno ostile un mondo ottuso che non le dà ascolto abbastanza. E non so nemmeno se la mia bambina timida e meravigliosa insegnerà alla mia figlia adorata che allenarsi alla paura è una risorsa per la vita. Non lo so. Tra le mie poche qualità annovero quella di non vivere di aspettative, mai. Ma guardarle giocare assieme è uno spettacolo, e vederle crescere così diverse è un privilegio, come lo è stato trascorrere l’infanzia a cavallo del regno del possibile e del regno delle paure, quelle paure che è possibile accogliere, accettare, superare con le proprie forze e con l’amore incondizionato della famiglia. 

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Quante lagne: #backatwork

volpe

È strano non poter disporre del proprio corpo. È strano non poter comandare il proprio alluce come in Kill Bill: “big toe…”. Adesso la vorrei proprio apostrofare “Desna nogo! Perché non ti dai una mossa?”.

È proprio strano non poter disporre di tutto il proprio corpo. Siamo abituati a volerlo diverso: più bello, più tonico, meno peloso, gambe più snelle, pancia più piatta, pelle più abbronzata, rughe stirate. Oggi un uomo colla gonna ha definito “burqa di carne” la chirurgia estetica. Una definizione cruda di cui non condivido il tono paternalistico, ma BridgetJones ora è irriconoscibile e be’ un po’ di effetto lo fa.

Insomma è strano non disporre di un pezzo del tuo corpo e non poter fare quello che vuoi. La corsa, le ciaspole. Partire e sapere di poter arrivare. Un percorso ad anello, mamma che bello. Correre sul far della sera, quando quella torta nuziale di San Luca ti fa da faro. Pat pat pat pat e La lingua batte nelle orecchie.

Davvero, è strano e faticoso disporre del proprio corpo nella misura che decide lui: incompleta. Perché io poi non so bene come rattristarmi. Non riesco a precipitarci fino in fondo, alla tristezza. C’è qualche strana forza che sempre mi tira su. E mi fa parlare coi matti del bus pure mentre sto andando dal dottore. Perché io non sono la volpe. E non sono nemmeno l’orso, purtroppo. Io sono la stupida capra. Una capra zoppa.

capra

È strano non disporre del proprio corpo da un giorno all’altro. Che ti svegli una mattina e la forza e la sensibilità non sono le stesse e un motivo non c’è e se c’è nessuno lo saprà mai. O così dicono. E tu devi crederci perché non hai scelta. E invece scegliere è l’unica cosa che conta, l’unica in cui credi. Ho scelto io come e cosa sbagliare. Ho scelto di essere anche indeterminata pur di non essere determinata da altri, violenti.

La medicina per come è organizzata oggi non merita sempre la nostra fiducia. Ma tante volte non è che ci siano poi altre strade. In tutta questa confusione e fatica soprattutto mentale l’unico raggio di chiarore e chiarezza mi arriva dalle persone che ho la fortuna di conoscere. Che belli sono stati quelli e quelle che mi son venuti a trovare, che mi han chiamata persino contro la mia volontà, mi han trovato i numeri da comporre, mi han infilato cinni trilingue in casa, hanno portato ragù e polpettone mostrando scetticismo verso i maccheroncini di Campofilone sottili come capelli che invece col ragù sono sempre la morte sua, per fortuna. Mia zia Goga mi ha portato la marmellata di kiwi, per dire. Di kiwi!

È talmente strano non disporre per benino del corpo tuo tutto intero che non è mica facile abituarcisi. Biljana, è un po’ che non ci sentiamo, andiamo a camminare in montagna? Ma cert… oh no! Non sono programmata per stare male, nonostante un’adolescenza passata a letto pure nei giorni della gita scolastica a combattere la mia tonsillite cronica ma soprattutto la noia e l’insofferenza. Non sono arrabbiata e non sono nemmeno triste. Sono impreparata e smemorata. Ci vorrebbe una scuola per imparare ad accettare i propri limiti e la propria limitatezza. Ci vorrebbe la patente, ci vorrebbe.

cuore

 

Per i credits (e il senso) dei disegnini basta cliccarci sopra.

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Pino, i tuoi veri fan ti salutano

Non ero una sua fan perché è una roba da appassionati e a me una passione non basta eccetera.
Non bisogna essere fan per capire la bellezza e la grandezza, e il legame dolceamaro con una città.
Sono (anche) di Bologna e abbiamo perso pochi anni fa Lucio Dalla: ci siamo capiti.
Nemmeno di Lucio Dalla ero fan, ma quando sento 4 marzo 1943 ho sempre i brividi, e La lingua batte ci fece una delle puntate più belle di sempre (fatevi un regalo e ascoltatela).

Quando muore qualcuno in tanti si lamentano dell’assalto ai social per dire la propria. Qualche volta diventa stucchevole, è vero.
In un attimo sembra quasi che tutti abbiano un aneddoto, che tutti l’abbiano amato, venerato, letto o ascoltato a seconda.
Ecco, quasi.
Fisiologicamente, ci sono i fan dell’ultima ora, quelli che salgono sul carro funebre, per così dire. Esistono, ma trovo sempe il modo per ignorarli.
Poi ci sono quelli per cui davvero se ne va con la persona un pezzo di sé e della propria storia. Sono queste persone a rendere non solo sopportabile ma unica e utile la mia tielle nei giorni in cui muore qualcuno.

Ieri ero a casa (sono spesso a casa in questi giorni, purtroppo). In tv qualche raro servizio delicato e di vero omaggio a Pino Daniele era affogato in altra robaccia, compresi dettagli clinici che per me non hanno alcun interesse. È morto e mi spiace; di che cardiopatia soffrisse voglio continuare a ignorarlo.

Insomma, su tv e media assibilabili sono abbastanza d’accordo con i contenuti (non con le virgole!) di questo pezzo uscito su Giornalettismo.
Per partecipare invece all’addio collettivo genuino mi taccio e mi godo tramite la mia tielle gli omaggi più belli e persino la migliore selezione di quel che vale la pena rivedere e riascoltare, anche da chi di norma non seguo ma che viene opportunamente segnalato.

Il rischio retorica in questi casi è sempre dietro l’angolo, ma il confine è spesso labile. Per dire, di norma un commento come quello che segue mi parrebbe esagerato, ma io l’ho trovato delicato e commosso (non conosco l’autore, è un RT di Iperbole):

C’è chi evidentemente non è del tutto fan, come me:

Ci sono i compagni di università che non vedi da anni ma che è così bello leggere:

La notizia viene data anche in altre lingue e altri alfabeti (purtoppo non parlo greco, ma si capisce, no?):

Ricordi privatissimi:

E ricordi pubblici…

…socio-politici:

La mia tielle è bella sempre, anche quando ci lascia qualcuno (niente autocitazioni a vuoto, e nemmeno tette):

Stamattina Vittorio si è svegliato così, e io ho pensato che sarebbe stato bello e struggente essere a Napoli adesso:

Insomma, non mi dà nessun fastidio leggervi:

E poi lo so che siete abbastanza forti da reggere anche questa:

Zbogom Pino, avevi dei fan fantastici.

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Quello che amo di noi, e degli altri noi

Amo gli italiani

Quando parlano di cibo mentre mangiano, e possono andare avanti per ore.

Quando interpretano con ragionevole flessibilità certe regole, e ti dicono comprensivi E che sarà mai! oppure Per tanto poco! o ancora Fossero questi i problemi!

Quando enumerano tutti i modi in cui si dice “gomma da masticare” o “strofinaccio da cucina” o “marinare la scuola” lungo la penisola (e nelle isole, certo).

Quando dicono che già a cinque chilometri si parla un dialetto sensibilmente diverso dal loro.

Mi guardano diffidenti alla mia convinta derisione della regola Bagno solo dopo tre ore, perché certi divieti ti entrano nella pelle come dopo un pasto troppo agliato.

Lamentano d’esser ostaggi del vaticano, ma poi tutti sono battezzati comunionati cresimati, pur confondendo l’Immacolata concezione con l’oggetto dell’Annunciazione.

Quando bevendo un espresso scadente commentano “A ‘sto punto mille volte meglio il caffè che mi faccio con la moka di casa!”.

 

Amo i miei iugopopoli

Quando mangiano qualcosa col cucchiaio e poi satolli di gulaš o zuppe varie esclamano Ah, non c’è niente di meglio che mangiare col cucchiaio!

Guardano lo sport, quasi ogni sport, tutti gli sport che a me piacciono, e ne parlano come fosse in quel momento questione di vita o di morte.

Quando usano per “mano” e “braccio” la stessa parola —ruka— ma poi per dire “mangiare chicchi d’uva” si bullano di potersi servire di un unico verbo apposito: zobljati.

Fingono di sapere qualcosa della religione cui dicono di appartenere, senza sapere nulla della spinosa questione detta filioque (né ovviamente che fosse un pretesto bello e buono per lo scisma).

Si scannano tra di loro da oltre vent’anni, ma poi parlano “na naški”, la “nostra” lingua.

Quando bevendo un espresso scadente commentano “A ‘sto punto mille volte meglio il caffè turco che mi faccio con la cuccuma a casa!”.

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Quello che ho imparato quest’anno

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Settembre is the real Capodanno. A me settembre mette una malinconia pazzesca. E difatti non ho mai fatto né farò ora propositi. Ma è stato un anno lunghissimo. Un anno inteso da settembre a settembre. Mi è successo di tutto, ma non ho voglia di parlarne ora. Quello che voglio raccontare —e già ne avevo voglia da un po’— è cosa e soprattutto come ho imparato. Tante volte la vita mi sorprende. Quelle volte è bellissimo.

Sono tutta gialla

Al primo Freelancecamp a cui ho partecipato (che era poi il primo in assoluto), l’energia di Roberta Zantedeschi mi aveva colpito come una secchiata d’acqua gelata in faccia (io adoro l’acqua fredda). Ci aveva parlato di colori che riescono a descrivere come stai al mondo (e come stai al lavoro), e ne ero stata affascinata. Ma non ero certa che fare un percorso di quel tipo potesse servirmi a qualcosa. Ebbene, i miei dubbi erano infondati. Presa da un’insolita intraprendenza (si vede che ne avevo davvero bisogno) ho chiamato Roberta dicendole più o meno Credo di voler comprare una tua consulenza. Senza minimamente insistere —anzi, accertandosi più volte d’aver capito di che avessi bisogno— mi ha spiegato il funzionamento, il costo, i risultati che avrei avuto. Neanche così ero certa di quello che stavo comprando, ma mi sembrava che lo scopo dichiarato (saperne un po’ di più di se stessi) facesse proprio al caso mio. Ho risposto a un questionario lunghissimo, seguendo l’istinto, il sentimento e un po’ di ragione. Dopo qualche giorno ho ricevuto un report, in italiano e in inglese (all’estero questi dossier sono ben valutati in fase di selezione) e già ero stupefatta dell’esattezza di certe descrizioni e della profondità e utilità di certe analisi. Ma il valore maggiore l’ho colto nel colloquio di restituzione con Roberta e Andrea, che sono di una bravura stellare, e assieme fanno faville. Non ho concordato –ovviamente– queste righe con nessuno dei due, né li ho avvisati che ne avrei scritto. Se sentite di aver bisogno di capire meglio come agite sul lavoro e quali sono i vostri punti di forza, un’occhiata a Pakarangi io la darei. Poi mi direte di che colore siete, e se andate d’accordo con i gialli… ;)

Scriv(iam)o a mano

Quando ho sentito la prima volta dell’esistenza di #scriviamoamano ho pensato Che stronzata radical chic! (Papà, lo so che non sta bene usare le parolacce, ma è per fedeltà di cronaca: mi perdoni?) Poi siccome ne hanno parlato benissimo persone con cui condivido tanti giudizi sul mondo (Alessandra in primis), mi sono presa un giorno dal lavoro (non pagato), mi sono iscritta alla prima data bolognese disponibile (pagando) e mi sono regalata una delle giornate formative più belle di sempre. Ora, non so se proprio tutti potrebbero restare fulminati sulla via di damasco della ri-scrittura, ma se vi siete sempre chiesti per quale assurdo motivo alle elementari ci insegnassero a fare la a con un cerchio aggiungendoci però una zampetta davanti “affinché non cascasse” (?!) questo è il corso che fa per voi. Io che scrivo a mano da sempre e non ho mai smesso (prevalentemente tenendo un diario sconclusionato dal 1992 che per di più ha un nome proprio), ho re-imparato a scrivere, trovando finalmente una logica e una deliziosa efficienza nella mia scrittura a mano, che si è fatta più “scientifica” ma restando appunto “mia”. È il regalo più bello che la bravissima Monica Dengo potesse farmi. Di questo corso magnifico aveva già ottimamente scritto Roberta, quindi la chiudo qui, e vado a comprare l’inchiostro per la stilografica e qualche pennarello giapponese…

 

Lasciarsi bene è quasi più importante che trovarsi (autocit.)

Qualcuno potrà pensare che io sia esagerata quando parlo della fortuna sfacciata che ho nel conoscere persone splendide e molto migliori di me. Qualcuno sbaglia. E mai come quest’anno gli amici tra i più cari che ho hanno dimostrato di essere persino migliori di come io li ritenessi, eventualità che quasi non credevo possibile. Lo han fatto perdonandosi a vicenda, e perdonando in primis se stessi. Lasciarsi è sempre dura. A me è capitato in ambito professionale, e forse non avrei gestito con più lucidità di quel che potessi sperare questo faticoso processo, se non avessi seguito quasi contemporaneamente le loro vicende intrise degli stessi sentimenti contrastanti: ammissioni, cambiamenti, indisponenza, commozione, ira, analisi, comprensione, perdono. La vita professionale e quella personale sono oggi così connesse che magari le distingui, ma poi i sentimenti che le governano finiscono per assomigliarsi tremendamente. Col vantaggio però di poter imparare la lezione nell’una e trasferirla all’altra, e viceversa.

La perfezione non esiste, e il web è panta rei

Sono così fortunata che una mattina ero all’Archiginnasio (che già è una gran bazza) e contemporaneamente ascoltavo le parole alate di Miriam, che è una formatrice brava e pacata. Col suo sorriso disarmante a un certo punto fa “Non vi sto certo suggerendo di fare pasticci, ma ricordate che sul web almeno non si ha l’ansia del Visto si stampi, e si possono fare piccole migliorie man mano; ergo: non procrastinate, fate!”. Ora, io non sono per niente perfezionista. Però sono spesso non abbastanza soddisfatta di me, compresi i miei scritti. E mi tengo i post in bozza per un tempo irragionevolmente lungo. Quando capita, penso al sorriso di Miriam, chiudo e pubblico.

 

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Figli e figliocci

Caro Piero,

ti diranno forse che vivi nella città più bella del mondo, ma sarà anche il posto dove ti chiameranno Pierò per sempre, fattene una ragione. Però a me è una vita che mi chiamano Biliàna, e sono sopravvissuta. Non è poi così male.

Sei nato da nemmeno ventiquattr’ore e ancora non mi sembra vero. Ero tanto contenta di vedere la tua mamma col pancione, non ci speravo quasi più. Ma averti visto –fuori programma– nelle prime ore della tua vita è stato il più bel regalo che potessi immaginare. Quindi grazie, di cuore.

Pesi poco più di tre chili e mezzo, sei lungo mezzo metro di tenerezza, e hai tanti capelli, proprio come l’ecografia aveva predetto. La tua mamma è radiosa, sembra che fosse pronta da sempre ad accoglierti, tuo papà è emozionato ma anche divertito dalle tue mille smorfiette e dai tuoi ministarnuti improvvisi (salute!).

Mi trovavo in queste aree francofone per un esame difficile, che è andato bene ma non so se abbastanza bene, lo saprò che tu sarai già cambiato un sacco, ci scommetto. Cambiate quasi a vista d’occhio, voi rospetti che spuntate fuori da corpi che mai diresti possano trasformarvi da girini in principi dagli occhi azzurri in qualche mese. E invece sì.

Sei nato che fuori Parigi era come Parigi raramente è. C’era un sole bello e il cielo terso, e la Senna scorreva gioiosa a pochi passi dal tuo ospedale, che ho lasciato ieri che ancora eri lì dentro al caldo, ma avevamo già capito che avevi voglia di vederci tutti e respirare questi profumi insoliti. Forse sei un novelty seeker pure tu, che ne sai? Magari pure a te non sembrerà mai di averne abbastanza, di questo mondo così sempre diverso e sorprendente.

Se le cattiverie e le brutture sono un prezzo da pagare per avere tante scoperte a portata di mano, caro Pierò, forse ne vale comunque la pena. Ci pensavo oggi attraversando questa metropoli da parte a parte per venire a vederti. Tante persone diverse sotto lo stesso cielo, tante storie e facce e credenze e stili, modi di vestire e pensare. Sono carini i tuoi concittadini. Un po’ stressati e frettolosi, ma carini, con un sacco di bambini da portare al parco e grandi borse per portarsi appresso un po’ del loro mondo in metropolitana.

Una volta –prima che tu fossi girino– tua mamma aveva scherzato dicendo Sarà senza dubbio uno zuccone che odia leggere e io mi dispererò. (Scherzava, eh.) Non so come sarai. Però ti auguro che potrai essere come vorrai. Non ho aspettative su di te. Non spero che ti piaccia la montagna, anche se sarebbe bello arrivare al Lago di Pilato un giorno assieme; né che diventi astronauta o chef stellato. Spero tanto che potrai essere un bambino sereno, con un’infanzia piena e goduta giorno per giorno, attimo dopo attimo. Spero –egoisticamente e mi scuso– di poterti vedere qualche volta all’anno, anche se siamo lontani e anche se sono così capra da non sapere una parola di francese. Ma tu mi aiuterai, vero?

Ti auguro di crescere impegnato e responsabile, ma di buon carattere e positivo, perché ci pensa già il mondo attorno a essere piuttosto negativo, talvolta, e acido come la crème fraîche.

Ho assistito all’incontro dei tuoi genitori (senza accorgermi, fessacchiotta, che era stato amore a prima vista), ho celebrato le loro nozze con il tricolore sul petto e una piuma bianca in testa (sulla piuma chiedi chiarimenti a tuo papà), e poi ero loro tra i piedi quando tra una contrazione e l’altra c’erano solo quattro minuti, ed è stato chiaro che non si trattava di un falso allarme. Insomma, sono stata un cupido petulante e invadente senza volerlo. Però è tutto nato da tanto amore che provo per i tuoi genitori, e ora anche per te.

Perché ti amo da quando ho saputo che c’eri, nascosto nel suo corpicino flessuoso e luminoso: nonostante tutte le difficoltà e la fatica e le paure. Benvenuto Piero, con l’accento.

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