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Acqua fresca

Warning: post acido (ma c’è pure tanto amore)

Ne parlo perché ne ho una giocosa occasione. Però —concedetemelo— di norma non ne parlo, perché appena apro bocca su argomenti siffatti quel che ne esce è solo un poderoso e sincero sbadiglio.

Le polemiche mi interessano poco da sempre, e così quelli che si lamentano di quelli che si crucciano di quelli che si lagnano della campagna #IceBucketChallenge mi interessano meno di zero.
Però, certo, gli interrogativi sull’opportunità, l’etica e l’efficacia della campagna restano, e sono invece di notevole interesse, personale per ciascuno abbia a cuore la ricerca medico-scientifica, e pubblico per la ricaduta sulla società.

Ho letto riflessioni lucide, analisi profonde o considerazioni fulminanti (in genere su Twitter).

Come sempre, nel calderone della polemica che aggrava la mia già cattiva occlusione mandibolare per eccesso di sbadigli, si mescolano anche acume e valore civico, tra l’altro perfettamente distinguibili, basta selezionare i propri canali e abbassare al minimo il rumore di fondo. Non è difficile. Se ce la faccio io che sono fessacchiotta e anche un po’ pigra, tutti ci possono riuscire.

E invece Michele Serra non ci riesce, e non perché non ci prova. Ma perché non ne avrebbe nemmeno bisogno. Dice di non essere sui social (no, lui parla di “sommo piacere dell’assenza” confermandoci che l’elzeviro vive e lotta in mezzo a noi), ma poi sa tutto su questo “autogavettone benefico” e sul “coro di suocere in servizio permanente” che avrebbe l’ardire di criticare il chi e il come, fino a ridurre “il web” (coll’articolo determinativo) in un amplificatore di “lavate di capo”.

Ora, Serra scrive da una vita e lo sa fare con grande maestria, ma quel che mi chiedo io è: Ma lui che ne sa? Perché, se lì dentro non c’è, si sente in dovere di parlarne dondolante appeso tra due alberi? Se “il web” è tanto esecrabile, perché mai il suo giornale di giornalista (il mio ex giornale di lettrice) riempie paginate e paginate delle peggiorni scemenze de “il web”, dei gattini che lo commuovono, dei video che lo scandalizzano (che permaloso, questo “il web”), delle fotogallery che ne fanno il giro?

La polemica di Serra è poca cosa di per sé (Alla gggente non gli va mai bene niente e criticano pure la beneficienza? Ma va?!), ma diventa ancor più irritante perché arriva da chi non sa di cosa parla, con una supponenza che in altre epoche mai avrebbe perdonato a certi interlocutori tromboni.

Quindi se la mia amatissima amica Alice condivide l’Amaca io non posso fare a meno di pensare che vale molto più un suo qualsiasi post sul neonato blog (prepararsi all’Opera, per citare l’ultimo, delizioso) di mille Amache reazionarie che nulla ci possono spiegare perché nulla hanno indagato mai su “il web”, godendo per autonoma ammissione di “sommo piacere dell’assenza” a cui non possiamo che rispondere: #esgc.

Alla fine mi sono fatta la mia doccia gelata (confesso, adoro fare le docce fredde: non è stato un grande sforzo), e questo post non aggiunge niente di intelligente a quanto è stato scritto sull’argomento da chi ha saputo farlo meglio. Quello che è certo –per me– è che su “il web” c’è nelle nicchie giuste un senso di responsabilità e di approfondimento maggiore che in tante stanze dei bottoni e in redazioni (che immagino polverose) di giornali che hanno insegnato a tutti noi (o almeno a me) a leggere, ma che non hanno da un pezzo più niente da dire.

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Con la cultura si mangia (e si beve il caffè)

Questo blog non fa di me una blogger. Non mi definirei blogger nemmeno se questo fosse un blog famoso. In generale, amo poco definirmi. Tanto che ho scelto una professione che puoi dire solo con lunghe perifrasi. Epperò siccome le mille attività in cui mi butto mi portano a conoscere persone splendide, ho ricevuto un gradito invito come blogger dalla splendida Alice. Questo post non è una marchetta perché tanto non le so fare. E tutto quello che scriverò lo direi di persona a chiunque.

La ragazza con turbante arriva a Bologna e io lo scopro chiacchierando per caso durante una pausa pranzo fuori (le pause pranzo fuori mi permettono di vedere persone che altrimenti quasi mai e le amo per questo). La ragazza con turbante l’ho sempre chiamata così perché così era riportata sull’Argan usato al liceo, prima che l’uscita di quel mediocre film (che ha già dieci anni!) ponesse l’attenzione su quell’orecchino di perla che in effetti è molto bello.

Proprio a quel pranzo scopro subito che una enorme azienda bolognese del caffè è main sponsor di questa tappa italiana del celebre dipinto che se ne va in giro per il mondo unicamente perché il museo che di solito lo ospita e custodisce, il Mauritshuis all’Aia, è chiuso per irrimandabili lavori di ampliamento e adeguamento. “La prossima occasione si ripresenterà tra 500 anni” ci dice giustamente il curatore della mostra a Palazzo Fava (Palazzo Fava: che meraviglia! Uno scrigno prezioso in pieno centro a Bologna).

Bologna sarà l’unica tappa europea di questo viaggio de La ragazza con turbante negli Stati Uniti e in Giappone. Oh, a me piace vedere Bologna alla fine dell’elenco Tokyo, Kobe, San Francisco, Atlanta, New York. È sufficiente questo per smuoverci dal nostro provincialismo? Ma no, dai. Però va bene che venga. Cosa c’entra questa mostra con la trascuratezza che affligge i nostri altri tesori? Ma che ci dia una sveglia, semmai! (Per dire: gli orari di chiusura 21 0 22 utili anche ai lavoratori non sono male, eh).

A me le polemiche sterili fanno sbadigliare. Ma tanto. Certo che è interessante riflettere sul potere di attirare le masse di una singola opera mediaticamente pompata. (Ricordo benissimo quando La ragazza con turbante non era ancora conturbante e con la perla, quadro tra i tanti tra le pagine spesse dell’Argan.) Ma c’è bisogno di darle della barbie, di dire che non abbiamo bisogno di lei perché abbiamo già tutto, di dire che non è un’icona votiva da portare in processione? (Mostre, Daverio, si chiamano mostre: le opere si spostano e questo spostamento si chiama “mostra”.) Non è nemmeno snobismo, è idiozia, è disperata voglia di continuare a essere al centro della scena. Se questi sono gli “intellettuali”, scusate ne faccio a meno.

Ho visto quel quadro all’Aia con un’amica amatissima. Anche lì era affollato, anche lì era caldo e con il ronzio dei condizionatori a disturbare. Pensare di godersi l’arte a questi livelli in tranquillità e pace è una pia illusione. O una fortuna che capita a chi fa il divulgatore d’arte in tv e le opere se le vede a musei chiusi (ma che poi no: mentre stai filmando col regista, il trucco e le luci in faccia mica te le godi… però magari le sbirci in una pausa e le guardi un po’ meglio, dai. Non lo so. Non faccio la divulgatrice in tv). Tra i due personaggi intervenuti a gamba tesa sull’opportunità di questa mostra di uno ho sempre avuto stima e dell’altro mai nessuna. Però entrambi scontano l’ossessione di restare aggrappati a quel po’ di fama di cui hanno evidentemente bisogno e che fa perdere loro il contatto con la realtà.

A Bologna ci sono tesori nascosti e meno conosciuti di quel che meritano. A me il Compianto sul Cristo morto mette i brividi ogni volta che ci porto qualcuno in visita nella mia città d’adozione e d’elezione. Ma che c’entra questo con l’opportunità di una mostra che fa tappa a pochi metri dal gruppo scultoreo straordinario di Niccolò Dall’Arca, che magari qualcuno andrà poi a vedersi dopo il turbante diventato orecchino di perla? Dai, su. Non sono certo le mostre in più a danneggiare il nostro patrimonio storico e artistico. Saranno semmai i soldi e le attenzioni in meno. Saranno le poche ore di storia dell’arte alle medie e alle superiori, chissà perché sempre cenerentole tra le materie, manco non fossimo in Italia.

Siam sempre lì: ne abbiamo talmente tanta da non sapere che farcene. Da non riuscire a goderne appieno, a valorizzarla. A farci i soldi, persino. Come aveva scritto Camilla in un eccelso post di qualche tempo fa, può essere una maledizione. E quando viene citata in un film italiano, prima il film viene snobbato, poi invece lo candidano all’oscar e tutti a ripensarci. Che male può fare La ragazza con turbante a tutta la nostra Grande Bellezza dopo il tanto male che le facciamo sempre noi?

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Rimini Rimini: aspettando un anno dopo

Approfittatene, non sarò MAI più così sintetica (grazie a Massimo Mantellini e Stefano Quintarelli per l’involontaria lezione di brevitas). Certo che loro non hanno messo un corsivo introduttivo barboso… Ommamma, sto già sbagliando TUTTO.

Cose che ho fatto alla Blogfest di Rimini tra venerdì e domenica:

Assistito a un paio di discussioni interessanti: speravo di più.

Salutato vecchi e nuovi amici: evviva!

Non salutato (per ragioni di tempo e di incrocio) vecchi e nuovi amici: uffa!

Visto gente indossare i Google Glass fuori casa, per davvero no per finta.

Pranzato offerto il pranzo a Domitilla che ha detto Ma mi hai offerto già il biglietto del bus, non vale!

Pernottato in hotel “tipica accoglienza riminese” (non sto facendo sarcasmo, c’era davvero una targa così).

Aspettato invano millemila navette fantasma: e poi preso l’undici coi russi, tanti.

Rappresentato Palagruža alla Blogfest, ma devo chiedere il badge SLRP diplomacy a Gianluca per il 2014.

Ascoltato con gli occhi a cuore Mafe e Gallizio al #writecamp e osato minintervento dal palco.

Guardato solo un terzo degli Award perché ho impiegato meglio il tempo precedente davanti a una piadina spaziale con Maricler&Fabrizio (tip: agli eventi accodatevi ai foodblogger e mangerete da dio!).

Postilla, tanto ormai la brevitas me la sono giocata con l’inutile introduzione

Premiare la gente di internet (non dite l’internet: ve ne prego) non vuol dire privilegiare i nativi digitali? Le perle rare? A radio deejay serve questo premio? (E comunque ha vinto Bastonate: evviva!)
Ci ho pensato, e secondo me è un problema di candidature a monte. A differenza dei più, perdo un po’ di tempo a compilare con impegno la prima votazione, quella delle candidature spontanee. Ripenso alle battute fulminanti, spulcio Pocket (che tool meraviglioso!) alla ricerca di articoli belli e post indimenticabili salvati nell’anno precedente. Poi alla votazione vera e propria non voto per la qualità non sufficientemente alta delle candidature. La dispersione è troppa, la qualità non arriva, vincono i soliti. Ci vorrebbe una piattaforma in cui le candidature vengano proposte con metodo un po’ più wiki. Ma forse no, non val la pena. In fondo non è importante. In fondo, come dice Alessandra: siamo a posto così, davvero. (L’ANSA, ha vinto l’ANSA: non vi perdonerò mai).

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La (mia e solo mia) grammatica di Twitter

Sono molto tollerante. Ho perso una patria intera per colpa dell’intolleranza. Sono quindi molto tollerante. Ma esigente. Ho una tielle selezionatissima. Leggo solo chi mi va. C’è chi scrive con meno cura di altri, e non mi dà (più di tanto) fastidio. Appunto, sono tollerante. E esigente. Soprattutto con me stessa.
Queste sono le regole che mi piace seguire, perché mi piace il risultato che danno. Mi sgrido (un po’) quando le disattendo per distrazione. Sono mie e solo mie. Non seguitele, per carità. E leggetele così, solo se vi va. (Anche perché le regole più belle di Twitter restano quelle di @dietnam di un post un po’ vecchiotto: le seguo ancora, anche se forse non le segue più nemmeno lui.)

1. Non calpestare le aiuole, e nemmeno l’italiano.

Oh. Nn scrv mai csi’, xke’ nn mi piace e mi dà fastidio vederlo scritto così. Anche se i caratteri son pochi, preferisco scrivere tutto per esteso e meglio che posso.

2. Trova il tuo punto fermo: elimina (o diminuisci drasticamente) i puntini di sospensione.

Possono essere piacevoli. Di rado. Mi dicono che Dovlatov ne usasse a profusione. Adoro Dovlatov (non sapete chi sia? dovreste!), ma non me n’ero mai accorta. Vanno usate con parsimonia. Specie da chi –come me– non è Dovlatov.

3. Le emozioni si possono anche scrivere. Quando puoi, lascia le emoticon fuori. Ma soprattutto fuori dalla parentesi.

Adoro quando le persone belle dicono “sospiro” o cose così. Tipo @antogasp. Sopporto senza problemi quando le persone belle fanno una crasi tra emoticon e parentesi (per intenderci, una cosa come questo sorriso :) ma non mi piace per niente e non lo faccio mai mai. Lo fa @gluca ma a lui perdono un sacco di usi.

4. Quando tuitti fai dei tweet, ma pure dei tuit. Non guardo la tivvù (né la tv), ma amo la mia tielle pure quando guarda in massa sanromolo.

Applico a twitter le regole che seguo per le parole straniere in italiano. Si scrivono dei tweet, mai dei tweets (voi eleggereste mai delle misses Italia? andreste a vedere dei films?). Però dalla mia following spagnola @sgambarte ho imparato tuit che trovo bellissimo (gli spagnoli dicono anche ordenador, ma sono più simpatici dei francesi che usano ordinateur: chissà perché). Con tuit compongo le parole declinate o coniugate: insomma, tuittare mi suona meglio di tweettare o twittare. La tielle (ossia la TL ossia la timeline) è invece un vezzo da semiabruzzese: in lingua locale vuol dire “pirofile” da forno e mi fa tanto ridere.

5. Il retuit/retweet è condivisione hic et nunc, la stellina è “me lo salvo per sempre”.

Anche questa “regola” (ma per me è più una consuetudine che trovo comoda) l’ho presa da uno tra i miei primi following: secondo me fa ancora così pure lui. Amo tanto quando qualcuno stellina una mia risposta affettuosa per farmi capire che l’ha letta e apprezzata. Ma io non lo faccio mai. Al massimo, rispondo anche solo con un sorriso (pure emoticon, eh: talora sono tollerante anche con me stessa). Insomma, non ho sposato la recente evoluzione “stellina = like”.
Così le mie stelline restano una sorta di antologia che posso rileggere quando voglio. Se volete, la “raccolta di fiori” è qua.

6. Non ti seguo (scusa ma sono già a 299).

Non sono una oltranzista della tielle leggera. Chi vuole seguire solo 75 profili, lo faccia. A me non bastano, c’è troppa gente al di là e al di qua dell’Adriatico che pensa bene, scrive bene e mi tiene compagnia. Perché c’è un limite fisiologico per ciascuno, e il mio s’aggira sulle 300 persone. Quindi di norma non ne seguo più di 299, e quando sono su quella soglia evito di aggiungerne senza prima dire addio a qualcuno che non tuitta più così bene come un tempo.

7. La lettura può attendere (ovvero, la compresenza di desktop e smartphone).

Di giorno non ho tempo per leggere tutti i tuit di tutti i miei following. Di notte neppure. Però sono insonne da sempre e ogni tanto ci riesco. Ma anche se non la leggo tutta, gran parte della mia tielle la recupero la sera, dal telefono. Quindi mi capita di scorrere alcuni tuit di giorno dal computer nelle pause di lavoro, e magari rispondere anche a delle sollecitazioni. Alcune discussioni in corso le vedo ma non le capisco, non avendo il tempo di approfondire. Poi la sera recupero più che posso grazie a Tweetbot sul telefono che resta a dove l’avevo lasciato la sera prima (quindi mi risultano sempre da leggere circa 999 tuit). È una follia, lo so. Ma lo faccio solo perché mi va, non è una imposizione. Anzi, è una specie di rito che quasi concilia il sonno. Ed è tanto buffo capire finalmente alcune discussioni che m’erano risultate criptiche durante il giorno, tra un budget e un esecutivo per la stampa.

8. Chi mi ama mi segua (e non pretenda che sia viceversa).

Monitoro i miei follower senza morbosità. Sono contenta che esistano, sono onorata che interagiscano con me spesso. Leggo sempre le bio dei nuovi follower (anche queste è una cortesia carina che ho coniato da altri). Ma non ricambio mai il follow in automatico. Non mi pare corretto. Twitter non è un social biunivoco e paritario. È asimmetrico, e questo è il suo bello. Alcuni miei following preferiti, per esempio, non sono follower (ossia, non mi seguono). Me ne faccio una ragione e continuo a seguirli.
Ho fatto un’unica eccezione. Ma come potevo continuare a resistere alla corte tuitteriana di @beppe142?

9. Magari i TT sono utili. Ma (mi) annoiano. Indi per cui sono inutili (per me).

Lo so che li amate, che vi manda in estasi “mandare” un argomento o hashtag in TT. Ma a me non frega niente. Da anni tengo i TT impostati su worldwide e non su Italia perché preferisco ignorare gli abissi di ignoranza dei miei conterranei. Non guardo mai mai i TT, ignoro i vostri tuit in cui parlare di TT, non contribuisco se non per puro caso a niente che sia connesso ai TT. Punto.

10. Un dogma è per sempre, una regola di Twitter è per il tempo che serve.

Poche esperienze al mondo sono più soddisfacenti che rompere le regole. Soprattutto se proprie. Essere (un po’) indulgenti con se stessi è indispensabile. Quindi questo decalogo è in evoluzione con brio. Anche perché è Twitter stesso che cambia, è la Rete che evolve, siamo noi che la usiamo sempre con modi nuovi e più consapevoli, per fortuna.

 

Mi sono ricordata tempo fa che avevo iniziato a scrivere su Twitter (orrore: in terza persona!) perché su Facebook scrivevo solo in inglese (oltre la metà dei miei contatti non parlava italiano) e mi mancava scherzare con la lingua che conosco meglio e uso di più. Non tutti i mali brutti blu vengono per nuocere.

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Eponimie

Volevo che questo spazio avesse un titolo corto e un sottotitolo lungo. Così è. E il titolo NON è più in inglese.
Allora l’ho spiegato in questa pagina che non è un post ma una pagina. Ché le pagine in questo layout sono in alto cliccando su quella inconcina con tre righe. | La foto è mia, niente di che come foto. Però Parigi è Parigi. E i ponti sono ponti.

bloggheggiando, fotine

Eponimie

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