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Che rumore fa il lavoro?

Questo post non sarà letto da nessuno, perché:

  • sarebbe meglio leggere anche il post che l’ha generato, che è già lungo come una messa cantata, e quindi sono due deterrenti in uno;
  • è a sua volta stimolato da un post che non ho citato non perché vigliacca ma perché detesto il litigio sterile – epperò il lettore Pietro se ne è accorto, che implicitamente citavo quell’altro post;
  • sono ormai passati mesi e l’argomento è freddo come un cappone del bollito riposto in frigo, anche se secondo me scaldato dal microonde del jobs act di cui poco ho studiato e capito;
  • è un finto dialogo tra me e il commentatore Pietro, cui non rispondo con un altro commento, ma direttamente con un post che prevedo già lunghissimo: e con questa ho ammazzato tutti i miei 24 lettori (non sarò mica all’altezza di Manzoni, no?).

Ma essendo un post su un post diventa un metapost: potevo mai io resistere alla tentazione di un metapost?
Pietro parla (anzi, commenta) e io rispondo passo passo, mesi e mesi dopo: una follia.

Non pratico il web 2.0 con familiarità, ma questa volta ci provo.
Non si preoccupi, Pietro. Tanto l’espressione “web 2.0” per fortuna sta esaurendo la sua funzione descrittiva e pure quella metaforica e assieme speriamo muoiano anche “popolo del web” e altre bizzarrie simili. Lei ha usato la funzione commenti di un blog nella maniera migliore, quella costruttiva. Sono onorata di questa scelta, torno a dirglielo con sincera gratitudine.

La seguo su twitter perchè mi pare abbastanza interessante quello che scrive.
Ecco, lei mi è già simpatico perché precisa “abbastanza” interessante, che mi pare davvero il massimo grado di interesse che una persona poco brillante come me possa suscitare. Io non la seguo perché sono pericolosamente vicina al 300, ma mai dire mai. (E non si dispiaccia, per carità.)

Sorvolo sulla polemica concerto utile/inutile.
Bene, come preferisce. E concordo: dai, potremo perder mai tempo sull’utilità o meno di un concerto?

Mi colpisce la sua affermazione mutuata da HoC “Riesci a immaginare di lavorare per più di due anni nello stesso posto?”. Come può ragionare sul mondo del lavoro di questo benedetto paese, partendo da questo pre-supposto?
Mah, caro Pietro. Non è mica tanto un presupposto. È un po’ la realtà. La mobilità lavorativa è aumentata, volenti o nolenti. A me tutto sommato pare stimolante cambiare dopo un po’ di anni (anni, mica mesi). E certo è bruttissimo dover cambiare perché costretti. Ma succede, meglio essere preparati.

I lavoratori (i 5 milioni grosso modo descritti da Daverio a Piazza Pulita) che incrementano il vero PIL italiano non si possono permettere di pensarla come lei.
Può darsi. Ma non è che io mi permetto di pensare così come fosse un lusso. Per me è stata ed è una strategia di sopravvivenza, l’unica che ho potuto attuare.

Sono persone che amano quello che fanno (le lacrime che scorrono sul viso degli operai senza più la fabbrica mentre descrivono “le merci” che producevano meriterebbero un piccolo “Furore” italiano) e che hanno un rapporto profondo con le ritualità del posto fisso, tanto vituperato.
Anche io ho amato i lavori che ho fatto, risparmiandomi forse le lacrime. Le ritualità del posto fisso mi sono estranee, ma non la gioia di uscire per andare al lavoro, per dare un primo senso alle mie giornate (non vivo per lavorare, ma il lavoro è tanta parte della vita quindi tanto vale viverselo al meglio).

Il grosso del PIL italiano viene prodotto da operai che non possono permettersi (non concepiscono) il dilemma posto fisso sì/no.
Non sono sicurissima che sia “il grosso” ma vivo in Emilia e sì ci sono ancora tante fabbriche con quel modello. Ma se il dilemma non è concepito cosa fa uno quando la fabbrica –per mille motivi– inizia ad andar male? Che se ne fa l’operaio del posto fisso di un’azienda che va male e probabilmente chiuderà?

Dall’altro capo del corno le masse operaie del capitalismo maturo anglosassone che operano in mercato dove non esiste (più) il posto fisso sarebbero ben felici di poterne usufruire.
Mah, caro Pietro. Probabilmente sì. Però, se così tanti quanti siamo di posti fissi non ce n’è, che si fa?

Vede, ho 57 anni e vivo da 39 grazie a un posto fisso. Sono di un’altra generazione rispetto alla sua. Non avendo avuto genitori che mi pagassero studi, libertà e ambizioni il posto fisso era (ed è) il prezzo che dovevo (e devo) pagare per inseguire i miei obiettivi. Questo mi differenzia da lei (non mi riferisco allo status sociale, sia chiaro).
Da extracomunitaria con un paese sfasciato alle spalle e donna (altra delle sfighe statistiche di questo paese) io non avevo altra scelta che investire sull’unico capitale posseduto –quel po’ di sale in zucca– e studiare e guardarmi in giro. All’università mi hanno aiutata molto e con ovvia fatica i miei genitori e un po’ il tanto vituperato stato, senza le cui borse di studio per reddito e merito io forse non avrei mai potuto laurearmi. Non mi sono mai risposta che l’unico modo per perseguire i miei obiettivi (ma quali, poi?) fosse il posto fisso, perché non ne ho incontrati tanti sulla mia strada, di posti fissi.

Nel 1977 quando ho cominciato a lavorare il terziario avanzato (creativo) non esisteva nemmeno come idea. Fuori dalle fabbriche dove coesistevano operai e impiegati a posto fisso di “altro” c’erano solo le stanze numerate dell’università (visitati per conferire con il docente). Il resto erano i palazzi milanesi (e un po’ torinesi) delle multinazionali della pubblicità, Cinecittà (con l’irragiungibile Centro Sperimentale), il palazzo in via Biancamano dell’Einaudi a Torino (più irraggiungibile del CSC), e non mi viene in mente nient’altro.
Caro Pietro, questo è forse il passaggio più toccante del suo lungo commento. Un altro mondo, un’altra Italia, che non esistono più. A parte la iugonostalgia, non sono una che rimpiange il passato, specie quello che non ha conosciuto. Quel che mi colpisce della sua descrizione è la nettezza delle scelte, la separazione tra le carriere, le strade diverse e divergenti che –una volta intraprese– segnavano il resto dei tuoi giorni. Oggi viviamo il paradosso di un po’ di promiscuità in più ma tanti posti di lavoro in meno. Non ci abbiamo guadagnato, ma non vedo cosa possiamo continuare a fare se non a cercare soluzioni, pretendendole magari da coloro che paghiamo per trovarle.

Noti che la voglia di essere “creativo” non era inferiore alla vostra di TQ (trenta/quarantenni). Cambia solo che allora, nel 1977, sapevo che non c’era altra strada che trovare un posto di lavoro “fisso” se volevo dare corso ai miei obiettivi.
Caro Pietro, TQ è un acronimo bizzarro ma gradevole (l’avrà capito che le parole mi appassionano). Però sono costretta a smentirla. Noi TQ non abbiamo particolare voglia di essere “creativi”. Tanto che molti TQ ancora sognano il posto fisso di cui tanto stiamo parlando. Anzi, non credo esista alcun TQ omogeneo. Se c’è qualcosa che invidio alla sua generazione –anche se forse non a lei in particolare– è proprio la capacità di coesione, di lotta per obiettivi comuni. Noi siamo delle schiappe da questo punto di vista. Siamo migliori sotto altri aspetti –la nostra è stata la prima generazione con una coscienza ambientalista decente–, ma di lotta sociale proprio non ci abbiamo capito un tubo.
Non colgo il collegamento tra il posto fisso e gli obiettivi di vita, mi perdoni: nemmeno ai suoi tempi. A ogni modo, qualsiasi possano essere gli obiettivi di vita di chi cerca lavoro oggi, di sicuro sperare nel posto fisso per perseguirli è una strada tutta in salita.

Le pongo la seguente domanda sapendo che la storia, piccola o grande non si fa con i “se”: lei oggi rischierebbe un “posto fisso” (con tutto quello che ne consegue) nel tentativo di concretizzare i suoi obiettivi? Non mi risponda che oggi non c’è lavoro eccetera; lo so da me.
Guardi, Pietro: non lo so. Ho fatto anche scelte bizzarre nel mio ormai neanche tanto breve percorso di lavoro. Ho detto di no a una grande azienda qualche anno fa, perché avevo iniziato da poco un lavoro che poi mi ha regalato anni di gioie e dolori, senza mai pentirmene. Ho lasciato un lavoro per rimettermi a studiare, dopo aver vinto una insperata borsa per un master: è stato strano e difficile tornare a non guadagnare, nonostante non pagassi la retta ho fulminato i risparmi. Non so se rischierei il posto fisso per i miei obiettivi (ma le andrebbe, caro Pietro, di spiegarci a che tipo di obiettivi pensa?), so di sicuro che lascerei un posto fisso da cui non avessi più niente da imparare, perché il mercato del lavoro non sa che farsene di competenze rachitiche e invecchiate; lo lascerei se presagissi gravi difficoltà economiche della mia impresa, e se ritenessi il management assolutamente incapace di gestire le difficoltà: capita, no?

Quello che apprezzo nel suo post sono le considerazioni sulla pochezza della formazione (scuole e università) in questo benedetto paese. Ma se questa pochezza fosse la risposta (sbagliata) a una domanda posta dal mercato?
Eh sì, è così.

Forse l’altra domanda sarebbe la seguente: perchè una massa enorme di “gggiovani” (e relative famiglie) ha deciso da una trentina di anni a questa parte che il lavoro o è creativo o non è? Certo, certo le cose vanno così perchè il capitalismo avanzato eccetera eccetera. Ma resta la domanda.
Non so che gggiovani frequenta lei, caro Pietro, ma non conosco nessuno che creda che il lavoro o è creativo o non è. Le dirò di più. I tanti creativi che ho avuto modo di conoscere lavorando nel settore vivono il loro lavoro con assoluta normalità (e ci mancherebbe altro, aggiungo).

Il lavoro gentile signora (o signorina) oggi in questo benedetto paese non è più. Punto. E i sindacati sono orfani sopratutto di cultura del lavoro. Come tutti noi. Il resto è noia.
Ma a parte sbadigliare che si fa?

 

La foto l’ho scattata io e riproduce il modellino di un enorme demenziale monumento di San Benedetto del Tronto, quasicitazione di un verso di Dino Campana, che aveva usato “fabbricare” al posto di “lavorare”: tutto un altro senso.

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Chi non salta persino peggiore è

Regalatemi un po’ di certezze, perché non ne ho. E le certezze invece sono tanto consolatorie, fanno quel teporino dentro come la borsa d’acqua calda d’inverno. Che infatti non uso. E un po’ quindi me la cerco, avete ragione. Non ho ricette, dubito su tutto. Del passato rimpiango davvero poco, per mia sana e robusta costituzione rivolta fieramente al futuro, ma del presente biasimo l’immobilismo della mia generazione e una palese incapacità di scuoterci.
Allora non me la sento di criticare chi eppur si muove, chi salta su e giù per ore spalla a spalla con altri disgraziati, anche se sul palco si susseguono artisti mediocri, oratori di basso livello, stupratori di Calvino.

Prestatemi qualche certezza, ché temo di non averne più. E magari spiegatemi voi che siete bravi perché le rappresentanze dei lavoratori dovrebbero trovare risposte imprenditoriali (?!) ove la politica non le ha mai manco cercate. Litigo da anni con i miei più cari amici sul posto fisso che non solo non esiste più ma che io non voglio proprio (“Riesci a immaginare di lavorare per più di due anni nello stesso posto?” è una battuta un po’ estrema ma che mi ha colpito di House of cards.) Però non è che la classe lavoratrice non esiste più, eh. Tanto che c’è ancora chi la sfrutta, chi la deride, chi cerca di metterne in discussione i diritti. Sono per il lavoro duro e per l’impegno, ma sento anche tanto la mancanza di una abitudine alla discussione politica di alto livello, che sappia guardare al di là del mio naso. Per questo odio la retorica di quelli che si chiamano cittadini e dicono ognuno vale uno. Al Parlamento non ci voglio uno come me, ma uno tanto tanto meglio di me. A darmi spunti di analisi, a suggerirmi una visione io non ci voglio uno come me, ma uno meglio, perdiana!

Allora datemene un po’ delle vostre certezze, le mie devo averle smarrite. Al concerto del Primo Maggio (mi rifiuto di usare quell’orrido accrescitivo, perché temo di essere snob) ci sono andata una volta sola, perché temo di essere snob. Non fu una gran edizione, ma fu una bella giornata. Vivevo ancora in provincia, non lavoravo ancora e non sapevo che lavoro volevo fare. Non sapevo nemmeno che università avrei fatto, figuriamoci. E nessuno mi ha poi aiutato a fare una scelta oculata in quel senso. Ecco, questa è una di quelle richieste da fare a gran voce. Fate un orientamento decente, santi numi! Impegnatevi, impegniamoci. Chiediamolo a gran voce. Non vogliamo (solo) le lavagne elettroniche, vogliamo che i liceali di oggi soffrano un po’ meno di quanto abbiamo patito noi nella scelta degli studi universitari. (Alla fine a me è andata pure bene, ma del tutto a caso: e col caso non si governa il futuro dei paesi.)

Dei decenni passati, raccontati nei pochi film che lo han fatto bene, mi affascina la pervasività della politica come esercizio di dispiegamento del pensiero. Le lotte operaie e studentesche erano uno scenario affascinante di incontro tra il reale e tangibile (sfruttamento, ineguaglianze, cattive condizioni di vita e di lavoro) e la filosofia politica che leggeva avvenimenti e casi specifici con le lenti di categorie durature e innegabili.
C’era tanta ingenuità, per carità. Strappa un sorriso Lo Cascio ne La meglio gioventù quando dice alla figlioletta “Il bisogno di comunismo?! Sara, tu quando senti queste stronzate non devi credere a una sola parola.” (più o meno, cito a memoria). Ma se negli anni Sessanta e Settanta leggevano Marx senza capirne molto, cosa leggiamo noi senza capirne molto? Baricco? (È il primo nome che m’è venuto e non lo cancellerò.) Sono finite le ideologie ma son finite pure le idee. E la capacità collettiva di fare analisi di qualità, profonde.

Troppo facile prendersela con migliaia di più o meno giovani che riempiono una piazza, accusandoli di combatterre battaglie non loro con le inutili armi del vino nello zaino e dei cartelli giganti Larino c’è (dopo un decennio ancora ti ritengo molesto, chiunque tu sia). Chi gliel’ha spiegato che il lavoro è cambiato, e che tutto sommato per certi versi ciò è anche un bene? Abbiamo presente il livello infimo della nostra televisione, quello bassissimo dei quotidiani italiani? E noialtri geniacci cosa abbiamo fatto per aiutare gli altri a cercare un punto di vista diverso? Io ho parlato qualche volta via DM con un oggi quasiventenne in gamba e intelligente che mi aveva chiesto qualche dritta quando doveva iscriversi all’università, dati i miei studi e la città dove vivo (A.D. 1088). Ma è ben poca cosa, no? E poi forse alla fine ho fallito, dato che s’è iscritto lo stesso a Comunicazione, anche se io l’avevo avvertito che la strada era in salita e niente affatto battuta.

Cosa dovremmo fare noi che del posto fisso ne facciamo volentieri a meno per migliorare la disastrata situazione generale ma pure la nostra personale? (Ho ben più di trent’anni e zero risparmi e un’otturazione dal dentista mi mette in crisi.) Consigliare a tutti di lavorare nel web? Di “inventarsi un lavoro”? Ma a scuola insegnano l’autoimprenditorialità? Non mi pare. Qualcuno indaga a fondo le attitudini di ciascuno a fare mestieri specifici, oltre che a eccellere in fisica teorica anziché in greco antico? Magari! Come stupirsi allora di pletore di ventenni che faranno mestieri che non li soddisferanno sognando in più situazioni contrattuali anacronistiche di cui si potrebbe fare a meno se concentrassimo i nostri sforzi in richieste parasindacali (“para” perché al momento non rivendicate da alcun sindacato) utili a tutti quelli che potrebbero stare meglio considerate le risorse disponibili?

La nostra incapacità di interpretare la realtà è il vero termometro di una sconfitta culturale, dell’appiattimento ideologico. Il capitalismo ha vinto, poi è entrato in crisi irreversibile e forse sta morendo, ma ha fatto in tempo a lasciarci in eredità non il pensiero unico, bensì l’assenza di pensiero. Il livello dialettico è scarso nelle piazze mediatiche come in Rete, ove pure io mi sento benissimo. Così diventano paradigmi osannati di fine analisi socioeconomica i vari Coglioni NO e compagnia andante. Anche queste (troppe) righe scritte a cavallo di vacanze ponti e rari giorni in case con la tv sono poca cosa, e tradiscono la mia natura di ragazza degli anni Novanta, il decennio buio della storia contemporanea, quando ancora si moriva di droga e ancora non ci si drogava di internet: un vuoto pneumatico.
Neanche io sono un’economista. Ma ho il sospetto che non tutti possiamo lavorare nel terziario avanzato. Anzi! Ho la certezza che non tutti vogliamo lavorare nel terziario avanzato. Credo che lo scollamento tra le aspirazioni delle persone, l’analisi (inesistente) delle loro reali attitudini e capacità e la possibilità vera di assorbire forza lavoro da parte della nostra economia sia la colpa più grave di una classe dirigenziale non solo politica che già di responsabilità pesanti ha un sacco e una sporta.

Favoritemi qualche certezza, mi hanno educata a coltivare il dubbio pur nata in una dittatura (anzi, sapete cosa potrei dirvi…). La scomparsa di una dimensione collettiva della discussione politica è stata una grande perdita. (Avete notato quanto in Rete parliamo di Rete e quanto poco di economia reale? E no, lo scontrino da 80 euro non vale.) Conosco, frequento e lavoro con imprenditori, alcuni bravi altri meno. Non li vedo come “il nemico”. Non in prima battuta, almeno. Da cooperatrice, in fondo un pochino (un pochino: nonno, perdonami!) sono imprenditrice anche io. Ma che dobbiamo essere tutti imprenditori di noi stessi mi pare un falso storico, psicologico e sociologico. Questa sì che è ideologia, sì che è propaganda. Anche perché poi leggi l’ultimo editoriale di De Mauro su Internazionale e verifichi che la lotta di classe non muore perché assume semplicemente altre forme (l’ho link-ato, leggetevelo, è un bel pezzo).

Se siete così generosi da regalarmi qualche certezza, siate anche così magnanimi da non offendervi se non le accetterò. Le certezze, ognuno deve avere le sue. Io poi vivo bene anche senza. La situazione però è grave e a me dispiace tanto non già che non ci incontriamo per crogiolarci nei rispettivi dogmi, ma per condividere i dubbi che abbiamo in comune.
E ora: su le maaaniiii!!!

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